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Le lobby? La vera mancanza di trasparenza è nelle istituzioni

Registro dei lobbisti sì. Registro dei lobbisti no. La regolamentazione dell’attività di lobbying è diventata una delle questioni istituzionali centrali su cui si è concentrata l’attenzione sia dei saggi, nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che del Governo Letta. Sono così cominciate a circolare le prime bozze di un disegno di legge cui già se ne disconosce la paternità.

Le ragioni che giustificano l’intervento normativo sembrano essere due: l’Italia è uno dei Paesi privi di una legislazione in materia e il livello di corruzione nella Pubblica Amministrazione è sopra la media non solo europea. Alle prime due ragioni, se n’è aggiunta una terza: la (probabile) riduzione del finanziamento pubblico ai partiti lascerebbe alle lobbies il compito di “nutrire” finanziariamente l’apparato politico con il rischio che la decisione pubblica sia “comprata” dal più ricco.

Occorre, quindi, intervenire subito per arginare e monitorare questo fenomeno molto diffuso ma mai digerito. Un approccio che nasconde, in realtà, l’evidente incapacità della nostra classe politica e dirigente di avere una visione di sistema ai problemi da risolvere; si cerca così di mettere “delle pezze” che sono fatte passare come risolutive. Come se il lobbying fosse un’attività circoscritta, autonoma e indipendente da quella politico-istituzionale. Per usare una metafora, ci si dimentica che il pepe è parte integrante di un buon piatto di spaghetti alla carbonara. Tutti ritengono (fingono) che il piatto – il funzionamento del processo normativo – sia già preparato a regola d’arte e che allora basti concentrarsi solo sul pepe: le lobbies.

Il nostro Paese sembra ripetere, con ostinazione, l’errore di legiferare d’istinto, a parti separate senza avere la visione completa e moderna del puzzle che vuole comporre. Ad esempio, vogliamo avere un sistema che consenta la partecipazione a tutti oppure uno che la permetta solo ai corpi sociali direttamente interessati? Vogliamo che la decisione pubblica sia – in tutte le sue fasi – trasparente e inclusiva oppure riteniamo che tale partecipazione sia incompatibile con i tempi decisionali? Pensiamo che sia venuto il momento di avere delle regole civili e moderne di linguaggio normativo per consentire a tutti di comprendere ciò che si legge, oppure intendiamo proseguire con la consuetudine degli articoli composti di centinaia di commi, pieni di novelle, dove la lingua italiana è del tutto assente? Vogliamo ragionare su come semplificare la decisione e ridurre i troppi passaggi intermedi in modo da far sapere ai cittadini ciò che è stato deciso e da chi? Desideriamo togliere il potere all’inamovibile “alta” burocrazia che tiene in mano questo Paese e che crea inaccettabili asimmetrie informative? Quale uso vogliamo fare delle nuove tecnologie nel processo decisionale?

Ecco, queste domande sono alla base di un serio ragionamento sulla modernizzazione dei meccanismi decisionali di questo Paese di cui le lobbies sono solo una parte. Una specifica regolamentazione del lobbying non renderà certo questo Paese più democratico e trasparente se non si procede parallelamente con interventi sulle regole (uguali per tutti) con cui si decide nell’interesse generale o parziale. Regole che andrebbero sostenute da nuovi modelli culturali e di cittadinanza, nel senso proprio della citizenship.

La realtà è che il pesce puzza dalla testa. La mancanza di trasparenza è, infatti, nelle istituzioni prima che nelle lobbies. Se non si comprende questo, si mette in scena una finzione. Non sarà il registro dei lobbisti, al quale aderirò, a garantire una decisione pubblica inclusiva, democratica ed efficiente; con buona pace di tutti coloro che sentono il bisogno di costruire una riserva dove mettere dieci piccoli indiani senza né archi né frecce.

Francesco Schlitzer

amministratore delegato di VerA



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