Nelle sue dichiarazioni spontanee al processo, Lele Mora, parlando del caso Ruby come di una vicenda di «abuso di potere, dismisura e degrado», ha fatto riferimento alle tre parole, spesso utilizzate, nei suoi articoli, durissimi con il Cav. dal giornalista di Repubblica, Giuseppe D’Avanzo, morto nel luglio del 2011. Fu lui a compilare le 10 domande, pubblicandole sul quotidiano romano, alle quali l’allora premier si rifiutò, sempre, di rispondere.
Il cronista napoletano aveva scritto molti, documentati pezzi sui presunti festini ‘a luci rosse’ ad Arcore e sulle pressioni di Silvio Berlusconi sui funzionari della Questura di Milano.
Martedì scorso, il giorno dopo la sentenza sul caso Ruby a carico di Silvio Berlusconi, stangato a 7 anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, Ezio Mauro, il direttore di ‘”Repubblica”-di proprietà di de Benedetti, il “grande nemico” dell’ex premier- aveva riportato, nel suo editoriale, alcuni passaggi dei pezzi del suo collaboratore, in cui il giornalista parlava, appunto, di «abuso di potere» e «dismisura» da parte del Cavaliere. «Con l’intervento a favore di Ruby – scrisse D’Avanzo – quel potere, che sempre privatizza la funzione pubblica, muove un altro passo verso un catastrofico degrado, rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell’Eletto».
«Senta, signor Stalin, lei di che giornale è?», aveva chiesto il leader del PDL a D’Avanzo, in una pausa dell’udienza dell’aprile 2011 del processo Mediaset, quando il cronista, in prima linea nella campagna contro Silvio, gli aveva chiesto perchè non avesse reso dichiarazioni ai giudici invece che alla stampa.
Un passaggio, quello sull’abuso di potere, il degrado e la dismisura che Lele Mora ha pronunciato ‘a braccio’, davanti ai giudici, facendo riferimento ad articoli, letti dopo la sentenza. Passaggio che, però, non è stato riportato nella nota scritta delle sue dichiarazioni.
Nelle dichiarazioni scritte, tra le altre cose, l’ex talent scout, molto vicino a Berlusconi, ha ammesso di aver «accompagnato alle cene delle ragazze» e ha aggiunto: «So che l’ignoranza della legge penale non perdona, ma voglio dire che che non ho mai voluto nè percepito di poter condizionare la volontà di queste ragazze, nè credo di averlo fatto». E «non ho mai giudicato i loro comportamenti – ha aggiunto – forse qui sbagliando, ma non ho mai inquadrato le loro condotte come prostituzione».
Pietro Mancini