Costi alti ed energia ridotta. Questi i principali problemi delle auto elettriche. A pagarne le spese, dopo aver provato a risolvere entrambi i problemi, una delle aziende leader del settore a livello mondiale, con punte di eccellenza nell’export in Europa, l’israeliana Better Place.
Fondata nel 2007 da Shai Agassi, l’azienda – che tempo fa aveva giurato di sostituire la propulsione a benzina con quella elettrica – ha però accumulato quasi un miliardo di dollari di debito negli ultimi cinque anni. E a fine maggio è stato dichiarato il fallimento.
La stazione “pit-stop” per cambio batteria
Un altro sogno che si infrange; colpa della crisi o di aver guardato troppo oltre lo steccato senza aver creato prima delle basi solide su cui saltare; o una società che ancora non si è trovata pronta a rispondere in modo adeguato. Agassi ha cercato, in realtà, di superare i problemi della carica limitata e dell’immagazzinamento dell’energia o quella di ridurre i costi della batteria (la parte più costosa di una machina elettrica): l’idea era mantenere la proprietà delle batterie delle auto, puntando a prezzi competitivi con quelli delle macchine tradizionali, e creare una rete diffusa per la ricarica che in realtà è una stazione dove è possibile fare una specie di pit-stop per effettuare il cambio della batteria scarica con una nuova già carica (riducendo i tempi di molto). Così decine di stazioni sono nate in tutto il Paese, e poi in Danimarca e nei Paesi Bassi per estendere la portata europea della vettura. In chiave globale la società aveva in programma anche la creazione di stazioni pit-stop in Cina, Hawaii e Giappone.
Progetto ambizioso
In Israele, posto ideale per il sistema di ricarica (dimensione relativamente piccola, centri abitati densamente popolati, e prezzi elevati per il carburante), il progetto era sostenuto da governo e da una partnership tra la Better Place e la Renault-Nissan (senza contare i finanziamenti di altre aziende tra cui General Electric, Morgan Stanley e HSBC). Sulla carta, la Better Place sembrava lanciata verso il futuro. Ma lo scontro con la realtà ha messo subito in evidenza alcuni limiti. Primo tra tutti quello dei costi troppo elevati: ogni stazione per il cambio della batteria aveva un costo di circa 500.000 dollari. Ma, il vero colpo è arrivato dalla poca convinzione dei clienti, che non hanno accolto favorevolmente la novità.
Mancata risposta del mercato
Ora, indipendentemente dal fatto che la colpa sia dell’operazione ‘pit-stop’ o di qualcos’altro, le perdite della società hanno sfiorato quasi un miliardo di dollari, e il 26 maggio ha presentato istanza di fallimento. I segnali di crisi si erano intravisti a settembre, quando Agassi lasciò l’azienda su invito del presidente Idan Ofer. I tempi hanno giocato a sfavore della Better Place; per alcuni osservatori forse sarebbe bastato aspettare due o tre anni, ma la crisi non ha lasciato spazio. Comunicando la liquidazione, il Consiglio di amministrazione dell’azienda israeliana ha detto di rimanere convinta della ”visione originale di Agassi”, e cioè ”creare un’alternativa verde per diminuire la nostra dipendenza dai trasporti inquinanti”.
La lunga percorrenza
All’arresto di Better Place corrisponde l’avanzata di Tesla che, invece di puntare sulle stazioni per il ‘pit-stop’ per il cambio della batteria, ha incontrato la domanda del mercato con un modello che riesce a percorrere oltre 420 chilometri con una singola ricarica; non solo, le stazioni per la ricarica riescono a fornire altre 240 chilometri di percorrenza (anche se per ora sono soltanto 12). Il fondatore di Tesla, Elon Musk, crede così tanto nelle sue auto da super-carica che ha in programma di fare un coast to coast degli Stati Uniti, da New York a Los Angeles.
Da Better Place a Tesla il salto di qualità non è stato tanto sulla tecnologia ma sulla risposta sociale che le due idee hanno ricevuto. L’obiettivo rimane lo stesso, che in questo caso rende vincente la visione di Agassi, di rendere le auto libere dalla dipendenza da carburanti fossili.