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L’economia globale di fronte al dilemma fra squilibrio e depressione

Come tutti i dilemmi anche quello di fronte al quale ci troviamo – che si trova di fronte il mondo globalizzato – è pericolosamente cornuto. Nel senso che qualunque corno del dilemma scegliamo, finiremo infilzati.

Gli antichi greci, che erano maestri di dilemmi, però ci hanno insegnato una cosa. Il dilemma è una sostanziale sfida all’intelligenza. La soluzione del dilemma si rivela nel momento stesso in cui scopre la sua illusorietà, affermando la falsità intrinseca delle proposizioni in esso contenute.

Tradotto nei termini del nostro problema, dovremmo essere in grado di sciogliere l’enigma del nostro tempo cambiando semplicemente le regole del gioco. Perché il gioco che stiamo giocando, tutti insieme appassionatamente, è un gioco a somma zero.

Ne usciremo tutti sconfitti, se accettiamo il dilemma così com’è.

E com’è?

Molto semplice. Ce lo spiega l’Ocse, nel suo ultimo outlook economico pubblicato nel maggio scorso, dove, fra le altre cose, scrive alcune pagine molto interessanti sulla questione degli squilibri globali di cui abbiamo già molto parlato. Sono tre paginette in tutto che fotografano perfettamente il nostro dilemma.

Detto in parole semplici l’economia globale ha di fronte a sé una scelta davvero difficile: o accettare gli squilibri delle bilance dei pagamenti, che come abbiamo visto hanno un effetto costante sulla generazione delle crisi; o correggerli, sapendo che ciò condurrà ad un’inevitabile depressione assai peggiore di quella degli anni Trenta. La correzione degli squilibri, infatti, presuppone un pesante disintebitamento collettivo, privato e pubblico, che significa andare ben oltre la moderata deflazione che stiamo vivendo nell’eurozona del Sud.

L’Ocse ha elaborato un grafico che misura bene l’andamento degli squilibri globali dei saldi di conto corrente delle principali aree geografiche fra il 1996 e il 2012, in percentuale del Pil mondiale.

I dati sono stupefacenti. Nel 1996 il valore degli squilibri globali superava di poco l’1% del Pil mondiale. Nel  2007-2008, quindi al picco della bolla del credito, si era arrivati quasi al 4,5% del Pil mondiale. In particolare l’impennata degli squilibri inizia nel 2001, quando la Fed ricomincia la sua politica espansiva per rientrare dalla bolla di internet.

Ma le cause sono diverse. C’è l’ingresso della Cina nel Wto, che favorisce drammaticamente il suo export e quindi aggiunge una posta attiva agli squilibri strutturali. C’è la creazione dell’eurozona, che replica al suo interno il meccanismo di formazione degli squilibri globali. C’è l’esplosione dell’innovazione finanziaria, che con l’affermazione del modello originate-to-distribute si illude di eliminare il rischio e diventa l’alfiere di un pesante indebitamento collettivo favorito dai tassi bassi e da una inedita disponibilità di liquidità. E ce ne sono altre.

Ma quello che interessa qui rilevare è che la crisi ha un effetto miracoloso sugli sbilanci globali: li fa regredire.

A fine 2008 e nel 2009, la curva mostra che gli squilibri globali si sono dimezzati. Sono scesi addirittura sotto il 2% del Pil del mondo. E tutti noi ci ricordiamo il 2009 come l’anno orribile dell’economia mondiale.

Eccolo qui il dilemma: correggere gli squilibri, che come abbiamo visto portano alla crisi, genera un’economia depressa.

Dal 2009 al 2012 succede poco. Gli squilibri tornano a crescere, fino al 2,5% del Pil, man mano che si recupera un po’ di fiducia, pompata dalla politica suicida delle banche centrali. Ma a fine 2012 siamo tornati dove eravamo: sotto il 2%.

Dovremmo essere contenti, che tale squilibri diminuiscono, perché con essi diminuisce la probabilità di instabilità finanziaria nel mondo. Però non lo siamo: siamo depressi. L’occupazione è in profonda crisi, i Pil vanno avanti solo dove l’economia viene presa (monetariamente) a calci (Usa e Giappone), le banche ancora traballano. Anche perché, dicono gli studiosi, ci sono troppi squilibri globali.

Chiaro il dilemma?

L’Ocse ha elaborato anche alcune previsioni per nulla incoraggianti. Pur invocando politiche che migliorino tali “sbilanci” globali, viene fuori che con minimi aggiustamenti gli squilibri globali dovrebbero arrivare al 3,5% del Pil entro il 2020.

Se insieme a tali politiche “inerziali” dovesse verificarsi un nuovo boom nel settore immobiliare, che tutti si augurano, gli squilibri schizzerebbero di nuovo al 4,5% del Pil, lo stesso livello pre-crisi. Crisi che, lo ricorderete, è nata proprio dall’immobiliare.

Ancora una volta il dilemma: il boom aumenta gli squilibri e genera la crisi. La crescita alla lunga è destinata a deprimersi.

Se invece alle politiche minime associamo il tanto agognato aggiustamento fiscale negli stati, gli squilibri, da qui al 2020, si fermerebbero al 2,5% del Pil, cioé al livello di inizio 2012. Vi basta quel livello di economia per essere felici? A leggere le cronache pare di no.

Se poi all’aggiustamento fiscale aggiungiamo le solite riforme strutturali (la famosa competitività, fra le altre) allora gli squilibri potrebbero scendere fino al 2%. Il livello di fine 2012.

L’assunto, alquanto fideistico, è che tale livello di squilibrio sia accettabile, se accompagnato da riforme fiscali e strutturali.

Senonché tali riforme sono, per loro natura, deflazionistiche. Lo sapete, le stiamo vivendo sulla nostra pelle.

Ed ecco apparire l’altro corno del dilemma. Un’economia ordinata, ossai meno squilibrata, deve accettare di essere un po’ depressa.

Allegra, ma depressa.

Vale la pena, inoltre, andare a vedere come tale correzione di squilibri verrebbe distribuita a livello geografico.

Gli Usa, che nel picco pre-crisi cumulavano un deficit di conto corrente pari al 6% del Pil, forti della loro posizione di signoraggisti internazionali, nel 2014 è previsto riducano il proprio deficit al 3,3% del Pil. Ma nello scenario base, tale deficit arriverebbe al 5% nel 2020. Nel caso di boom immobiliare al 6,1% (quindi più alto del 2007). Nel caso di aggiustamento fiscale al 3,2, nel caso di riforme strutturali al 2,6. Insomma, gli Usa sono stati, sono e saranno sempre in deficit, e sappiamo pure perché.

La Cina, che nell’epoca prima della crisi aveva un surplus di conto corrente pari al 10,1% del Pil, nel 2014 è previsto sarà ridotto ad appena l’1,4%. Il conto corrente cinese paga un prezzo sempre più alto al calo dell’export e all’aumento del deficit sulla voce dei redditi del conto corrente, visto che la Cina paga una rendita negativa sui suoi crediti.

Lo scenario base della Cina prevede un saldo attivo del 3,2% del Pil nel 2020, che ariverebbe al 4,1 in caso di boom immobiliare. Ma con l’aggiustamento fiscale è destinato a scendere all’1,2% e addirittura quasi ad annullarsi (+0,4%) con le riforme strutturali.

Interessante il dato dell’eurozona, che viene divisa in due per comodità d’analisi. Quella in deficit e quella in surplus. Anche l’Ocse ormai riconosce che lo squilibrio nell’eurozona è endemico.

L’eurozona in deficit aveva un saldo negativo pari al 4,4% del Pil prima della crisi. Nel 2014 è previsto chiuda con un surplus dello 0,8%, pagato con una pesante deflazione che ha ridotto drammaticamente l’import e con l’aggiustamento della voce redditi del conto corrente, migliorata grazie ai notevoli deflussi subiti sugli investimenti di portafoglio.

Nello scenario base, tuttavia, da qui al 2020 i paesi in deficit della zona euro è previsto tornino in deficit per il 2,4% del Pil, peggio ancora se dovesse ripartire l’immobiliare (-3,6%). In caso di aggiustamento fiscale il deficit scenderebbe allo 0,9% del Pil, se si riuscisse a fare le riforme strutturali, si dovrebbe arrivare a un sostanziale pareggio (+0,1%).

Al contrario i paesi in surplus (Germania, Austria, Belgio, Finlandia, Lussemburgo e Olanda) avevano un saldo attivo, prima della crisi, del 6,5% del loro Pil. Nel 2014 è previsto calino al 5,3%. Nello scenario base, nel 2020 tale surplus (squilibrio) è destinato a salire al 7%, addirittura all’8,5% nel caso di boom immobiliare. L’aggiustamento fiscale dovrebbe “normalizzare” questa situazione portando il surplus “appena” al 5,8%, mentre con le riforme strutturali si arriverebbe al 4,9.

L’eurozona, insomma, è destinata a essere perpetuamente sbilanciata. Con tutto ciò che ne consegue a livello di frammentazione finanziaria, spread e quant’altro.

Il Giappone, che aveva un surplus del 4,8% prima della crisi, nel 2014 è previsto arrivi all’1,9%, mentre in tutti gli scenari previsti rimane saldamento sopra il 3% di surplus da qui al 2020.

Infine i paesi esportatori di petrolio. Prima della crisi il loro surplus era del 16,4% del Pil. Nel 2014 si prevede arrivi al 7,4, ma in tutti gli scenari elaborati rimane sempre saldamente sopra il 14%.

Stando così le cose il primo corno del dilemma, quello di accettare gli squilibri, sembra ineludibile.

E altrettanto il secondo. “Una combinazione di riforme strutturali e di consolidamento fiscale – conclude l’Ocse – potrebbe fornire qualche margine qualora rischi al rialzo degli squilibri dovessero materializzarsi”. Quindi bisogna accettare anche le correzioni, con tutto il costo che comportano.

Qual è la soluzione?

Magari iniziare a capire che dobbiamo rifiutare il problema così come viene impostato. Dobbiamo rilanciare.

Dobbiamo rifiutare il dilemma e affrontare un trilemma.

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