Si fa un gran parlare di merito e di meritocrazia senza averne però spesso cognizione di causa. Alcune parole vengono usate quale riempitivo in discorsi che tendono ad immaginare un Paese diverso e certamente in linea con i principale canoni di buon senso.
Il buon senso, in molte occasioni, contiene già le soluzioni alle diverse problematiche senza ulteriori vacui approfondimenti.
Il merito, insomma, è qualcosa che appartiene al buon senso. Non riconoscerlo e non valorizzarlo è già di per se un errore molto grave che ne genera altri alla stessa stregua di un virus che danneggia un sistema.
Sul punto ho voluto sviluppare una conversazione con Nicolò Boggian, headhunter per società multinazionali e sociologo, che per l’affermazione di un sistema meritocratico spende ormai da tempo molte delle sue energie.
Il merito sembra ogni giorno soffocato da consuetudini poco incoraggianti. Mi piace parlare di riformismo meritocratico. E allora come è possibile far emergere il talento come riconoscerlo e valorizzarlo?
Diciamo che per far emergere il Merito, condizione indispensabile è riconoscere che gli individui sono diversi tra loro e hanno percorsi personali e professionali che gli permettono di eccellere in compiti e materie particolari.
Questa diversità genera un valore che può essere strategico per organizzazioni ed istituzioni. Sarebbe quindi auspicabile un investimento di energie, tempo e risorse per avvicinare i talenti ai ruoli più opportuni, mettendoli nelle giuste condizioni di operare.
In Italia vi sono diverse condizioni strutturali che non agevolano una sana competizione o cooperazione “meritocratica”. Siamo una società in cui contano ancora troppo le condizioni di partenza e il network familiare. E’ evidente che molti si scoraggiano dal provare. Manca anche spesso un incentivo positivo delle Istituzioni, una sorta di diritto premiale moderno. Sappiamo come nella PA e in molti altri contesti chi eccelle non viene sempre ben visto.
La risposta è quindi : competizione positiva, cooperazione, fiducia e istituzioni e mercati aperti.
In un tempo in cui di affida a dei saggi le vicende delle riforme, quali sono i meccanismi di scelta? Perché proprio questi saggi? E in più in generale quali sono i criteri di questa scelta, come si sceglie la classe dirigente
Nelle scelte della classe dirigente prevale ancora molto il “sentito dire” e il titolo. Spesso non si giudicano seriamente i risultati conseguiti, non si ragiona molto su competenze e obiettivi da raggiungere e permane una volontà conservativa.
La nomina dei saggi in questo è emblematica. MI sembra che il 90% siano professori universitari. Premesso che ho qualche dubbio sull’effettività del contributo di chi ha una carriera accademica senza contatti con il “mondo esterno”, mi sembra che il criterio di nomina sia essenzialmente “essere un docente universitario” e non ad esempio “avere contribuito ad una modifica istituzionale”.
In altri casi prevale il meccanismo della fiducia nei confronti del già visto, già sentito. Intendiamoci: la fiducia è importante, ma non si può escludere a priori che possa generarsi anche nei confronti di persone che non abbiamo avuto la fortuna di conoscere in precedenza. Continuare a chiamare persone “conosciute” significa replicare una sorta di chiusura ” conservativa” della società . E’ interessante che tutti ce ne lamentiamo quando non veniamo inclusi in una shortlist o non veniamo incaricati di un ruolo, ma allo stesso tempo ci scordiamo di considerare questo fattore quando siamo noi a dover scegliere.
Per ultimo , date le difficoltà del momento, e la necessità di una qualche forma di innovazione e scostamento nelle prassi e nelle competenze richieste, chiamare sempre profili ” di continuità” può essere rischioso per il nostro Paese. Una riflessione andrebbe fatta, possibilmente in modo sereno.
Esiste ancora la differenza pubblico e privato? E quali sono le distinzioni? Perché in materia di PA ci sono ancora tante remore ?
Esiste ancora ed è troppo forte la differenza tra pubblico e privato. E’ una sorta di barriera a tutela di alcuni, spesso dirigenti sovraretribuiti, personale sottoqualificato e personale con specializzazioni particolari.
Vedo una PA che si ostina a non cambiare e in questo modo sta provocando una “fuga dal pubblico” verso società provate e miste dove le regole di governance non sono sempre ideali e dove prevale una sorta di deresponsabilizzazione o personalizzazione delle organizzazioni.
Il sistema “pubblico” è senz’altro positivo dove si tratta di amministrare un bene comune o un monopolio e dove si tratta di costruire infrastrutture generali per tutta la società. Certo che le regole e le prassi normative ora vigenti impediscono scelte e azioni, creando circuiti paradossali e insensati.
Allo stesso tempo il settore privato sembra prendere cattive abitudini e vizi tanto dal pubblico che dal privato.
Ripeto: anche in questo una sana competizione e cooperazione favorita dalle Istituzioni servirebbero molto come motore per la crescita. Le famose riforme a costo 0.
Nei tuoi scritti spesso c’è un riferimento all’apparato burocratico che sembra avere maggiore “responsabilità” di quello dei politici, Ciò mi ha molto colpito, perché la normativa è adottata dal legislatore su preparazioni tecniche, dunque le tue affermazioni mi fanno pensare che vi sia nell’annodamento delle leggi una “diabolica” preparazione di questo apparato.
Chi si addentra nella macchina amministrativa ed in questioni politiche sa bene che il 99% delle idee o delle scelte sono osteggiate da normative , diritti corporativi e da una vasta pletora di “esperti” che negano la possibilità di cambiamento.
Peccato che questo “frame” cognitivo e istituzionale, che in passato ha consentito allo Stato di creare strade, sistema sanitario, sistema previdenziale ect, ci sta impedendo adesso di essere competitivi a livello internazionale, ma anche equi e giusti.
Se siamo una società gerontocratica e sempre più diseguale lo dobbiamo più a questo che non all’abitudine italiana di non pagare le tasse.