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Prima del cosa, pensiamo al come. E a un buon tagliaerba.

Se ci sono due parole del vocabolario che questo paese non conosce, queste sono “manutenzione” e “progettualità”.
Riguardo alla prima, è inutile procedere all’interminabile elenco di siti, strutture, costruzioni, infrastrutture che necessiterebbero di manutenzione, che ne avrebbero necessitato in tanti anni di esercizio. E’ sotto gli occhi di tutti il degrado delle periferie delle città che, come l’onda, rimonta e rimonterà verso i centri storici mangiandoseli peggio di un’invasione di barbari. La storia, ammesso che si continui ancora a studiare, nel senso dell’entusiasmo della conoscenza che ahinoi abbiamo smarrito, mette in guardia rispetto ai Vandali, agli Unni, ai Visigoti. A quella primitiva bestialità che ogni schiatta, quindi anche la nostra, si porta dentro semplicemente con i nuovi elmi e scudi, quelli della modernità più becera.
Ma dato che guardare al passato e nominare la storia preclude l’ascolto dell’uditorio che è chic per definizione, chiuso nel suo esclusivo recinto autoreferenziale sempre più limitato e sempre più barricato, come il vino, nel suo empireo, proviamo a guardare avanti e parliamo di progettualità.
Ecco. Siamo il paese della proroga e della scadenza dei termini. Dove il tutto si esaurisce in una data al fondo di decreti e fogli in carta bollata. Data, tipicamente, molto in là o troppo in qua. Siamo il paese dei bandi con scadenza il 15 Agosto. Delle obbligatorietà con termine ultimo cinque anni più in là. Lontano. E tanto, poi, ci sarà una proroga o una deroga.
Non esisterebbe nessun ufficio tecnico, né esisterebbero i burocrati senza queste date troppo in qua e troppo in là. Sono le date, così scelte, che garantiscono l’esistenza agiata di certi impiegati.
Non bisogna essere certo dei Marco Polo per sapere che dappertutto si fa meglio con appena un poco di creanza. Che in concreto vorrebbe dire porsi il problema di come arrivare a quelle date. La programmazione, il metodo.

Prendete, per rimanere sulla notizia, il primo proclama di Ignazio Marino, la pedonalizzazione dell’area dei Fori Imperiali a Roma. In qualsiasi paese civile una proposta di questo tipo avrebbe avuto un suo trascorso, una sua fase di studio e di metabolizzazione. La proposta sarebbe stata preceduta da un progetto urbanistico, uno o più vertici con tutti i soggetti preposti a garantire il funzionamento dei trasporti, dell’ordine pubblico con tanto di valutazione degli effetti che l’intervento potrebbe provocare. Qualche simulazione di situazioni di emergenza, di contingenza. Insomma, un approccio che è quello del giocatore di scacchi di discreto livello che gioca con una certa profondità di mosse, almeno una, due. E non di quello che muove i pezzi senza chiedersi neanche se il suo pezzo finisce in una casella dove può essere mangiato.

Stesso discorso per quanto riguarda il desiderio di molte amministrazioni di voler incentivare l’utilizzo della bicicletta da parte dei propri cittadini al fine di ridurre l’inquinamento dei centri urbani. Oltre che essere proposta assai chic, specie se si inforca una bicicletta Montante quella che fu dei Carabinieri “co giummo”, questa è proposta che si colora di arancione, o addirittura dei colori dell’arcobaleno. Ma anche in questo caso ci andrebbe qualche tinta forma di progettualità. Se fino a ieri, anche per fare un favore a Fiat, Piaggio e Agip, abbiamo allevato orde di tamarri a due e quattro ruote, non possiamo pretendere, di punto in bianco, di trasformarli (i tamarri) in perfetti baronetti inglesi con tanto di ferma pantalone. Il risultato è un ibrido. Strade, ad esempio a Torino che sono larghe, lunghe e diritte, dove gli automobilisti sfrecciano ben oltre i limiti del codice della strada, al limite delle prestazioni delle automobili, in cui si scoprono pericolose intersezioni con piste ciclabili dove i ciclisti assumono l’atteggiamento tipico della trinità della guida. Già, perché il neo ciclista, sotto il caschetto chic, ha ancora la testa dell’automobilista, e alla bisogna l’aria del pedone martire e umiliato che vede calpestato il suo diritto di attraversare le strisce pedonali. Beninteso, sempre il nostro caro neo ciclista è pronto a sfoggiare un’altezzosa e impettita aria ribelle anche quando proviene contro mano da qualche svolta priva di visibilità finendo forcella contro parafango contro il malcapitato automobilista che ha sempre torto.
Sfido a trovare un’amministrazione di questo disgraziato paese che abbia fatto una campagna di sensibilizzazione al riguardo. Che è poi poca cosa, non è certo pretendere di fare come in Danimarca dove per portare la bicicletta, lì la usano tutti, devi aver preso la patente e se non rispetti il codice della strada, altro che camuffarsi da pedone, devi pagare la multa come un qualsiasi automobilista.

E il discorso potrebbe procedere all’infinito. Fino all’ultima minchiata delle minchiate quella della banconota dei 5 Euro. Altro esempio del paese dei Lucignolo, Pinocchio e Mangiafuoco. Anziché pensare di togliere la moneta dalla circolazione, con buona pace di idraulici, falegnami, meccanici e ambulanti, categorie queste tradizionalmente allergiche alla dichiarazione dei redditi, si rinnova il parco banconote, introducendo una banconota talmente supertecnologica, talmente a prova di falsario, che non viene letta neanche dai lettori automatici delle stazioni di servizio. Perché guai a pensare alla mossa successiva prima di procedere alla messa in servizio di qualsiasi cosa.

Ha ragione Francesco Merlo, ha ragione Giorgio Albertazzi. Hanno ragione i tanti che, avendo avuto consuetudine con la pubblica amministrazione, sanno che prima della politica questo paese ha bisogno di una dialisi di quell’impalcatura di funzionari dello Stato cui piace l’erba alta ed è allergica ai tagliaerba.


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