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Proteste e comunicazione. Dalla primavera araba al Brasile passando per la Turchia

La comunicazione, si sa, ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle proteste di piazza.
Quella di Istanbul contro Erdogan ha qualche particolarità sulla quale riflettere. Con un occhio a ciò che sta accadendo in Brasile

I protestanti di Gezi Park hanno acceso una protesta che dal punto di vista della comunicazione mostra alcuni aspetti interessanti.
Una prima differenza con le primavere arabe, oltre nel fatto ovvio che la Turchia non è un paese arabo, si ravvisa già nell’origine della protesta.

A Istanbul non si è scesi in piazza per protestare contro il governo ma per protestare contro l’eliminazione di un polmone verde, Gezi Park appunto.
Magari i manifestanti avevano già pianificato di estendere la protesta e dargli un significato tutto politico, però di certo essersi legati a un tema, una issue come diciamo noi comunicatori, così specifica e apparentemente apolitica, ha dato loro il vantaggio della sorpresa.

Questa lezione è stata rapidamente appresa dai manifestanti brasiliani, scesi inizialmente in piazza per protestare contro l’aumento del biglietto dei mezzi pubblici di Rio e San Paolo.
Il secondo aspetto che colpisce è che stavolta i manifestanti non pare abbiano fatto massiccio uso di social media per organizzare la protesta. Sicuramente sul web ci sono moltissimi video che un tempo sarebbero stati girati solo dagli inviati sul posto, ma a parte questo non abbiamo assistito alla solita santificazione di Twitter.

Questo significa che i social media hanno già esaurito la loro parabola nella comunicazione politica? No, sicuramente no. Semplicemente sono un mezzo tra i molti a disposizione e, come tutti i mezzi, si utilizzano se e quando sono funzionali al fine. Insomma, anche qui un tocco di sano e freddo realismo.

Infine, guardando stavolta al governo turco, colpisce un aspetto: Erdogan pare trattare la vicenda come un fatto squisitamente di politica interna.
Certamente la protesta stavolta non si è trasformata in una guerra civile, per nostra grande fortuna, come accaduto in altri paesi della primavera araba. Tuttavia sarebbe sbagliato non considerare le pesanti ricadute sull’immagine internazionale del paese.

Intendiamoci, non è certo facile per il governo giustificare una repressione talmente ruvida da apparire francamente spropositata. E tuttavia colpisce la quasi indifferenza dell’esecutivo turco verso i media, in particolare occidentali, nel tentare almeno di spiegare la propria posizione e giustificare le proprie azioni. Ci si sarebbe al contrario aspettati una robusta mobilitazione degli ambasciatori turchi in occidente con interviste e dichiarazioni.

Anche questo atteggiamento è probabilmente figlio di quello, più generale, di considerare la vicenda come una faccenda puramente di politica interna. Chissà se lo resterà davvero.


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