Lei se ne stava su di un’amaca. La usava a mo’ di altalena, seduta in quell’incavo generato dalla dilatazione delle fibre di sisal che sembrava fatto su misura per lei.
Quell’intreccio di fili disegnava una scacchiera di rombi da cui affioravano, come morbide colline giordane, le carni lisce di lei. Color sabbia. Il sole di Giugno aveva passato una mano di ambra su quella carne bianchissima dal codice ral inesistente.
Lui, riccioluto, biondissimo stava conducendo il suo motociclo dai colori sgargianti verso un parcheggio che fosse lontano da occhi e mani indiscreti. Il suo sguardo era celato da un paio di occhiali scuri dall’appariscente montatura. Indossava una t-shirt con un buffo leone sulla pancia. Chissà, forse retaggio della sua appartenenza a qualche gang di quartiere di cui aveva fatto parte da giovane.
Si mise sull’amaca vicino a lei. Lei gli fece un cenno con la mano. Seguì un lungo, lunghissimo sguardo. Muto.
Cercarono di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Ma lui aveva gli occhiali scuri e lei no.
Cercarono di sintonizzarsi sulla stessa frequenza di oscillazione dell’amaca. Niente, non ci fu nulla da fare. I genitori dei due, che spingevano le altalene, avevano statura troppo diversa.
Dopo poco tempo, quello tipico in cui una coppia si adora lei tornò al suo passeggino e lui al suo triciclo. Il papà di lei fu molto contento.