L’analisi di Maurizio Landini sulla crisi economica è decisamente pessimista e coincide, sostanzialmente, con quella della Confindustria: siamo sull’abisso, i disastri aziendali si susseguono senza soluzione di continuità, l’espulsione di mano d’opera è da esodo biblico, 500/600 mila posti di lavoro perduti solo nel settore metalmeccanico.
Lo sciopero del settore auto, indetto per il 28 giugno, avverte il leader della Fiom, è quindi solo il primo di una serie: poi toccherà all’elettrodomestico, alla siderurgia, per finire, in autunno, con un possibile nuovo sciopero generale dei metalmeccanici. Il tutto per sollecitare un minimo di azione politica: in questa catastrofe, accusa infatti il sindacalista, il governo è immobile e, quando si muove, è per rimedi inutili come il pacchetto lavoro.
Un provvedimento, secondo Landini, “insensato”: “inutile dare incentivi per le assunzioni se le imprese sono in crisi di produzione e non investono: gli sgravi verranno usati da imprese che avrebbero assunto in ogni caso. Gli incentivi occorre invece darli perché non licenzino. I contratti di solidarietà, per esempio, a questo fine sono molto più utili delle misure del governo”.
Nel complesso, che valutazione dà dell’operato di Enrico Letta rispetto al suo predecessore Mario Monti?
Siamo onesti: in questi ultimi mesi qualcosa è cambiato, rispetto a prima? Io non direi. Se si continua col galleggiamento in autunno c’è il rischio che la crisi esploda in modo irreparabile. Io non so quanto durerà questo esecutivo, ma certo l’immobilismo danneggia tutti, Berlusconi compreso. Se centro destra e centro sinistra continueranno a non fare nulla di concreto, alla prossima campagna elettorale sarà difficile accusare l’altra parte politica: avendo governato, o non governato, assieme. E a quel punto credo che Beppe Grillo, che pure oggi è in calo di consensi, si troverà davanti nuovamente un’autostrada sgombra.
Il governo forse è poco incisivo ma, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia nella sua relazione il 31 maggio scorso, anche le imprese non sono soltanto vittime della crisi, hanno qualche colpa. Lei che ne pensa?
Certo che ne hanno. Il Patto tra produttori lanciato da Confindustria a Torino, per dire,
è caduto nel vuoto proprio perché in questo paese anche la classe imprenditoriale ha pesanti responsabilità . Non sono tutti uguali, per fortuna, ma certamente una gran parte delle imprese non ha fatto tutto quello che doveva e poteva. Scarsi investimenti, produzioni delocalizzate, soldi esportati all’estero, eccetera… Mi aspetterei, anche su questo fronte, un richiamo da parte del governo: per esempio, si rimborsano alle imprese i debiti della Pa? benissimo, ma si leghino all’impegno a investire in Italia.
Il problema, però, e che non ci sono soldi per fare pressoché nulla.
I soldi, volendo, si trovano. I fondi pensioni integrativi hanno in pancia 100 miliardi, di cui il 70% investito in titoli di stato esteri e azioni di società estere. Sono soldi delle imprese e dei lavoratori. Si può immaginare di dirottarli su investimenti nazionali per rilanciare l’economia? E ancora: la Cassa depositi e prestiti potrebbe finanziare un piano nazionale straordinario di manutenzione per scuole, ospedali? Poi c’è la patrimoniale: una tassa sulle grandi ricchezze è assolutamente necessaria, anche per riequilibrare le colossali diseguaglianze del nostro paese. I proventi potrebbero essere utilizzati per rilanciare gli investimenti e per realizzare il reddito di cittadinanza: un tema di cui ormai si parla perfino nella ricca Germania, che ha comunque il problema di fare i conti con circa 9 milioni di persone che dispongono di un reddito sotto la soglia di povertà. Dall’altro lato, si potrebbero dare incentivi alle imprese che investono in Italia. E ancora, si potrebbe riprendere il discorso sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Non è un tema passato di moda?
Anzi, al contrario. È assolutamente attuale. Oggi le imprese impongono circa 120 ore di lavoro in più all’anno a persona. Siamo tornati alla settimana di 44-45 ore. C’è quindi spazio per tornare a parlare di riduzione d’orario, non a parità di salario, ma attraverso i contratti di solidarietà, anche in chiave espansiva, per stabilizzare i precari.
Il suo sembra un programma economico completo.
Sono alcune strade percorribili, alternative al nulla attuale. E se il sindacato non lancia questi temi, perde terreno e ragione di essere.
L’accordo sulla rappresentanza del 31 maggio può avere un ruolo nella crisi? Soprattutto perché rilancia l’unità sindacale, dopo anni di divisioni.
L’accordo è stato un passo avanti significativo- e forse anche le battaglie della Fiom sono state utili per arrivarci- ma prima di parlare di unità ce ne corre. Nella nostra categoria, per esempio, siamo ancora lontani. Io sono assolutamente per ricostruire l’unità sindacale, e dunque mi auguro che l’accordo venga applicato, passando dalle parole scritte ai fatti concreti. È la condizione essenziale per riaprire il percorso unitario, e anche per portare un necessario rinnovamento nel sindacato.
Come pensa che andrà la certificazione? Porterà sorprese?
Se si va a una certificazione vera sul numero degli iscritti e su chi vota cosa, nessuno potrà partire pensando di avere già vinto. Inoltre, c’è da capire cosa faranno le imprese: staranno alla finestra, o faranno anche loro campagna elettorale, a seconda delle convenienze, di ciò che fa loro maggior comodo?
Il percorso verso una definizione completa della rappresentanza effettiva si può realizzare con questo accordo, o serve altro?
Il passo successivo, io credo, dovrà essere una legge sulla rappresentanza, per dare un assetto definitivo al tutto. Ma anche, aggiungo, per sperimentare parti della Costituzione inesplorate, forme di democrazia economica più avanzate.
Pensa alla partecipazione, quindi?
Si, ma non intesa come partecipazione all’azionariato. La immagino come collaborazione tra sindacati, imprese e lavoratori sul progetto industriale, sul rinnovamento dei prodotti, l’innovazione produttiva. Del resto, l’esigibilità’ degli accordi ce l’hai solo attraverso la crescita della responsabilità delle persone, con un loro maggiore coinvolgimento. Va in questa direzione il protocollo Finmeccanica, che però è anche la sola azienda che ha fatto un accordo così avanzato e innovativo.
In definitiva, lei come lo vede lo stato di salute del sindacato, oggi? Ha un futuro, nella crisi generale dei corpi intermedi?
Tutto il sindacato sta affrontando una crisi di rappresentanza, che non è un problema solo della politica. La maggioranza dei lavoratori non è iscritto a nessuna organizzazione. Paradossalmente, il bisogno di sindacato non è mai stato così alto, ma nello stesso tempo la gente non ci percepisce come utili. Per questo, se mi chiede “ha un futuro il sindacato”, c’è il rischio che la risposta sia “no”. C’e spazio e ruolo per noi, ma dobbiamo tornare a essere lo strumento che consente alle persone di contare, altrimenti perdiamo senso.
Questo rischio vale anche per la Cgil?
La gente percepisce nella Cgil una certa debolezza, forse per via di scelte tattiche che negli ultimi tempi hanno portato la confederazione a non disturbare troppo il quadro politico. Ora stiamo avviando il percorso congressuale. Io credo che un congresso abbia senso se si sarà in grado di mettere in campo, oltre all’elaborazione, anche una proposta e una azione concreta. In questa fase storica, è tanto più essenziale che il sindacato sia indipendente, che abbia un proprio punto di vista, e che lo costruisca assieme a quelli che rappresenta.