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Culture politiche solide alla base di un vero progetto Riformista

C'è un libro che leggo spesso per la coerenza dei contenuti. Si tratta de “La Società Cinica” (Editori Laterza) del prof. Carlo Carboni, significativo e sempre attuale. Ciò equivale a dire che dal 2008 la situazione non è cambiata. Anzi. L'inadeguatezza delle classi dirigenti unitamente a quella che è stata definita l'eclissi della borghesia ha lasciato ogni speranza all'entrata di una svolta riformista.

Una svolta che doveva intervenire, in primo luogo, sulla rimozione degli ostacoli di ogni ordine e grado. Invece, tutto è ancora incompiuto o meglio mai iniziato. Con un conto portato direttamente al tavolo dei più deboli che non hanno ormai meccanismi di difesa per ottenere almeno i livelli essenziali delle prestazioni. La crisi, offre una chiave scusante a quei decisori indecisionisti che parlano di riforme per riempire il vuoto creato da azioni inesistenti. Ne è prova evidente il Governo Monti con le sue “tecniche” contraddizioni che ha rilasciato il virus dell'incertezza e dello smarrimento totale. Con le larghe intese poi si è abbandonata del tutto ogni sprazzo riformista delegando il “compito” a dei saggi per delegare, sostanzialmente, responsabilità.

Oggi, più che mai, servono delle politiche pubbliche dedicate alle fasce più deboli, ripensando il sistema di welfare con una ristrutturazione complessiva delle sue principali finalità. Quella che Carboni, nel libro citato, definisce il “miglioramento della vita civica”, della nostra “democrazia realizzata”. Riforme, dunque, che abbiano un senso e attuate con il buon senso, in tempi in cui il maitre di turno serve solo piatti ripetitivi nel “circondario cortigiano”, rinviando qualsiasi “decisione di cambiamento riformatore, nonostante a parole si professi riformista”.

Carlo Carboni, professore ordinario di Sociologia economica che insegna presso la Facoltà di Economia dell'Università Politecnica delle Marche, ha raccolto l'invito di Formiche.net ad approfondire il tema del riformismo sotto la luce delle culture politiche necessarie, alla qualità degli interventi, per ripensare l'intero sistema, con una Programmazione in luogo della logica dell'emergenza o del rinvio.

Il riformismo, depurato dall’aurea novecentesca, è oggi forse l’orientamento più diffuso e condiviso nella società, se con il termine s’intende l’adozione delle riforme indispensabili al paese per riacquistare capacità propulsiva sul piano sociale, culturale ed economico. Un’area ampia di cittadinanza competente e beninformata è in sintonia con questo orientamento e nell’immaginario lo rappresenta come cambiamento necessario e graduale, progressivo e programmato. Il riformismo si è infatti legato per lungo tempo alla programmazione dello sviluppo socioeconomico e all’idea della necessità di un contributo dei tecnici ai politici. Anche l’opinione pubblica mediale sostiene il riformismo.

Nonostante l’abuso fatto del termine negli anni che ne rendono incerto l’uso – tra insostenibili promesse e false partenze –, gran parte delle élite politiche si dichiara riformista ma, in gran segreto, coltiva l’idea cinica che la società italiana, da sempre preda del particolarismo guicciardiniano, non sia in grado di compiere un significativo salto di qualità e di cambiamento. Il riformismo è come il merito, tutti sono convinti che la sua applicazione porterebbe benefici effetti, ma ognuno, in cuor suo, pensa che sotto sotto è impossibile perché gli altri continuano a fare i propri interessi, anche a forte danno della comunità come nel caso dell’evasione fiscale, della corruzione, per non parlare dei comportamenti lobbisti e corporativi. In breve, non ci si crede e le prime a non crederci, a dispetto che se ne facciano interpreti con eloquenza, sono proprio le élite politiche. Del resto esse sono storicamente riluttanti ad assumersi responsabilità di decisione e di cambiamento (C.Galli 2012). La ragione sociologica dell’inconcludenza a cui ci ha abituato la nostra “casta” è che il cambiamento riformista potrebbe mettere a rischio oleati meccanismi di raccolta del consenso. La ragione politica, che a quella sociologica si ricollega, è che la struttura del potere si è sfarinata con l’ingresso di élite sociali e corporative e che il pluralismo ha portato una frammentazione dei poteri, ora più difficilmente egemonizzabili da una cultura politica riformista. In sostanza, il nostro è un paese privo di egemonie e ognuno tira l’acqua al proprio mulino, un paese in cui le decisioni latitano perché è difficile far procedere un progetto riformista nella giungla di veti corporativi, territoriali e delle posizioni di rendita. Senza una cultura politica in grado di elaborare una piattaforma programmatica condivisa con la cittadinanza, è improbabile rimettere al primo posto l’interesse generale, che secondo la popolazione comporta innanzitutto garantire un futuro alle nuove generazioni (Luiss 2009).

E’ per questo che nonostante ventiduemilioni di lavoratori dipendenti e autonomi siano concordi che vada ridotto sensibilmente il cuneo fiscale (oltre il 40% ) a livelli più accettabili rispetto alla media UE (27%), non se ne è fatto nulla fin’ora perché ciò comporterebbe intaccare le grandi rendite, ma anche quelle politiche e corporative. Sempre per le stesse ragioni le liberalizzazioni si arenano e le intenzioni di riformare profondamente gli Ordini professionali – se non abolirli, come inizialmente Monti premier auspicava – finiscono nel velleitarismo inconcludente o in mini provvedimenti. Ovviamente la lista degli esempi possibili sarebbe lunghissima.

Che il riformismo oggi assuma, in specie nelle élite politiche, una veste cinica (lo sostengono a parole, ma non credono sia praticabile) è dimostrato da due importanti circostanze. La prima è che nonostante la maggior parte degli italiani senta la necessita di un’autoriforma della politica e delle istituzioni, le élite politiche continuano a fare orecchie da mercante anche al cospetto della minaccia grillina e soprattutto del pesante mugugno astensionista che sta inaridendo il mercato del consenso politico. Le riforme politiche, istituzionali non si fanno e ciò mostra gli annacquati convincimenti di quanti si dichiarano riformisti. La seconda circostanza è che il riformismo non manca tanto di idee progettuali quanto di una cultura politica che le componga in una visione, le spinga e sostenga. Sulle problematiche da noi appena portate ad esempio, si sa quel che si dovrebbe fare; sul fronte politico istituzionale, legge elettorale, riforme costituzionali, riduzione dei parlamentari e dei consiglieri regionali, costi della politica, eliminazioni di sprechi e inefficienze nella PA e nella spesa pubblica (e si potrebbe continuare con professioni, lavoro, ecc.). In breve: è a tutti noto quel che c’è da fare, ma le decisioni mancano. Destra e sinistra si danno la mano nel vuoto di cultura politica che, a dire il vero, oltrepassa i confini italiani e assume una dimensione europea. La destra è orfana della rivoluzione neoliberista spinta dalle élite cosmopolite descritte da Lash. Oggi deve fare i conti non solo con il fallimento di una finanza eccessivamente liberista fino all’arbitrio, all’interlocking e al conflitto di interesse (assunto a metodo della governance), ma anche con la disfatta di una società resa fin troppo accessoria con un cittadino trasformato in un consumatore dipendente dal credito facile e dall’iperconsumismo “usa e getta”. Dall’altro canto, socialdemocrazie e socialismi sono monchi di un progetto di welfare e di benessere di seconda generazione, dopo la crisi, dopo i fallimenti di mercati finanziari e degli stati, questi ultimi dimostratisi troppo deboli per regolare i primi. In Italia, il welfare che conosciamo ancora oggi nacque da una stagione di patti sociali che lo istituiva chiedendo in prevalenza ai lavoratori dipendenti di finanziarlo. Rispetto allo scenario europeo della destra e della sinistra, quello italiano appare deformato dal suo passato. La destra e la sinistra in Italia non ereditano un riformismo (fallimenti inclusi) di destra liberale-conservatore e uno di sinistra socialdemocratico. Se mai, rimangono ancorate alle tradizioni delle culture amministrative bianca e rossa. Dopo la guerra né comunisti né democristiani si erano dichiarati riformisti e per di più le due culture cattolica e social comunista – le grandi escluse dall’unità alla seconda guerra – facevano in qualche modo capo a due stati stranieri, il Vaticano e l’Unione sovietica. Eppure queste due culture politiche produssero la ricostruzione e poi grandi riforme e spinti dalle circostanze (per essere brevi) ebbero la forza anche di raggiungere vette d’avanguardia nei servizi e nell’associazionismo. Cosa c’era se non un riformismo pragmatico nel modello Emilia del Pci che, da un lato, ancora praticava il doppio binario e dall’altro costruiva un ceto medio di cittadinanza?

Senza culture politiche solide che motivino un salto emotivo e cognitivo di élite e cittadinanza i progetti riformisti sbiadiscono e affogano nell’inconcludenza di chi li porta avanti senza troppa convinzione, senza essere disposto a legare il proprio destino personale a una visione di cambiamento, senza troppo badare alla propria carriera o all’immediato tornaconto.

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