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Divorzio all’Italiana a Ispica: quanto non siamo cambiati

Questo fine settimana a Ispica è stato rievocato “Divorzio all’Italiana” di Pietro Germi. La città di Ispica, Spaccaforno, evocare per evocare, si è vestita a festa per l’occasione di ribalta nazionale.
Le fotografie, gli stand, il set ricreato nelle vie che furono scelte da Germi per il film hanno fatto vendere granite e acqua minerale ai tanti bar ro gianu, la piazza principale su cui si affaccia la Chiesa Madre che custodisce il simulacro della Madre Addolorata. Quanto alla storia dell’emancipazione femminile però, beh parliamone tra altri cinquant’anni.
Il paradosso sta tutto proprio nel titolo del film: “all’Italiana”. Di cosa “all’italiana” si dice di cosa fatta male. Il matrimonio non ha attributi. Non ha complementi di specificazione, non è accompagnato da nulla. Il divorzio, invece, è sempre all’italiana. Perché o si divorzia senza divorziare o se si divorzia, state certi, lo si fa all’italiana. E non è il caso di andare troppo lontano e neanche troppo vicino, così evitiamo di trasformare questo breve articolo in un “Festen” degli iblei. Quante storie si potrebbero raccontare di matrimoni assurdi nati dal più tragico degli equivoci con maschi autorizzati a perpetrare rovina su famiglie aborto di sé stesse. Maschi, galli, che con la complicità di genitori e consuoceri non aspettano manco la fine del rinfresco, dopo l’unione davanti o Patri a Culonna, curvo per non guardarli in faccia, per consumare da un’altra parte tirando fuori gli attributi già dalla patta dello smoking.

Quanta ipocrisia, più ancora del passato. Chissà quante risate ci farebbe fare Raffaele Poidomani se potesse resuscitare e scrivere il sequel di Carrube e Cavalieri. Lui che aveva saputo raccontare con sottile e acuta ironia l’edificio sociale e culturale della provincia iblea degli anni 50 per nulla diverso dal resto del paese. La zia Maria rappresentava e rappresenta oggi la condizione della donna in Sicilia ancora meglio di Angela e della sorella Agnese. Andatevi a rileggere quello stupendo capitolo che è l’Ora di Rosolini in Carrube e Cavalieri. Altro che divorzio, il matrimonio fu la liberazione per la Zia Maria. Lei che il nonno non poteva più vedere, lei che a venticinque anni suonati ancora girava per casa senza nessuno che se la pigliava.
Costretta, pur di liberarsi, a farsi piacere il vecchio rosalinaro, con arte e parte, con le mani, mischino lui, che non poteva chiudere per il tanto stringere la zappa durante la settimana. Lui che forte e robusto, ruvido e pieno di tutta la polvere delle cave circostanti, pelosissimo fin sopra la schiena ma senza manco un pilo di charme, nel capovolgersi dello schema uomo-donna era portato per la mano dalla madre che, col padre della sposa, contrattualizzava. Altro che notai e commercialisti.
E questo modo di procedere, imbrogliato dalle sovrastrutture della modernità, tra un sms, e un “mi piace” vale assai a maggior ragione oggi perché, con la crisi, il matrimonio è prima di tutto una divisione di spese e fonte di garanzia per i fidi in banca. Oggi che con la precarietà dietro cui i giovani nascondono la mancanza di attributi, non ci si marita e non ci si stacca dall’ostrica perché si preferisce la comodità della mangiatura vascia (mangiatoia bassa). E dietro quelle frasi molto “vanity fair” scritte in italic delle corsiviste progressiste che spiegano come oggi l’età in cui la donna si sposa si è alzata tantissimo e con essa anche quella in cui si rimane incinta, si nasconde l’ombra dell’ora di rosolini in cui poi la famiglia, come il Nonno di Poidomani, prende in mano la situazione e soffia fuoco sulla paglia perché ste fimmine si maritino.

E così convolano con lui che se non manca di rispetto di patta, lo manca con l’occhiata. Quella in cui straluna l’occhio mentre lei, che negli occhi di lui si perde, conversa a tavola con gli altri tra cui solo pochi scorgono la crepa che il tempo renderà il letto del fiume di pianto nascosto e muto.
Che è la versione moderna del “Non ho bisogno di niente, vattene al letto va, vattene al letto” di Fefè a Rosalia e secondo progressione geometrica del “Vai via!” urlato dal Barone Cefalù alla moglie prima di arrampicarsi, prima il figlio e poi il padre, alla finestra a guardare la sottana della dirimpettaia. Che non è trash anni 80 solo per quel mandolino che fa base alla “vucca odorosa”.
Certo non mancano le fortunate. Dotate di malizia certune, dopo aver ripulito interi spogliatoi maschili, trovano il cosiddetto coperchio, di bella posizione, che chiude un bel pozzo senza fondo. D’altronde la tranquillità economica sa risvegliare passioni impensabili. Altre, meno dotate di carattere, a furia di tentennare finiscono costrette ad accontentarsi. Indulgendo nel peccato più grande che è quello del compromesso. Già, il compromesso che dell’atto, in amore, è l’impegno temporaneo che come tutte le cose “all’italiana” diventa, manco a dirlo, per sempre.

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