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Beppe Grillo e la patrimoniale. Governo Letta come il governo Amato?

Siamo al Fiscal Cliff? Ossia sull’orlo di un baratro in cui siamo destinati a cadere nell’estate-autunno 2013 così come avvenne nell’estate-autunno 1992 quando il governo Amato introdusse in agosto un prelievo forzoso sui conti correnti e la notte del 17 settembre chiese la “sospensione” per sei mesi dagli accordi europei di cambio (vi restammo fuori per quattro anni) con il risultato che la lira si deprezzò del 30% rispetto al marco?

Il post di Beppe Grillo

Ieri 18 luglio questo scenario è stato tracciato da due fonti di analisi molto seguite e molto distanti politicamente (pur se ambedue all’opposizione): il Blog di Beppe Grillo e “L’Opinione” di Loris Palmerini (considerato molto vicino alla Lega Nord). Sarebbe troppo semplice negare che le analogie non mancano: a) un governo nato debole e che appare ulteriormente fiaccato dalle vicende delle ultime settimane; b) una contrazione severa dell’economia reale; c) un aumento del debito pubblico ed in prospettiva della spesa per interessi ed ammortamento (dato i tassi a lungo termine segnano un rialzo); d) incertezze sulle politiche di finanza pubblica (ad esempio, sul futuro di IMU ed IVA); e) una pubblica amministrazione che sembra senza guida ed incartata in operazioni di piccolo cabotaggio.

Tuttavia, sotto il profilo delle politiche economiche, la situazione è molto differente. Ed i mercati (molto più integrati di quanto non fossero nel 1992) guardano alle politiche ed alla loro attuazione più che a indicatori sporadici relativi a questo o quello.

Differenze e analogie

La differenza principale riguarda il contesto: a differenza dell’unione monetaria (che comporta una moneta unica e una politica della moneta strettamente coordinata), gli accordi europei dei cambi prevedevano soltanto garanzie creditizie tra banche centrali. L’Italia fu costretta alla svalutazione quando tutte le garanzie creditizie del resto del sistema (principalmente della Bundesbank) erano state esaurite. Come mai si arrivò a tale esaurimento? In primo luogo nel novembre 1989 era stato fatto un grave errore tecnico: abolire le ultime restrizioni sui controlli di capitale ed entrare simultaneamente in quella che, in gergo, veniva chiamata “la fascia stretta” degli accordi europei di cambio. Logica economica avrebbe richiesto aspettare alcune settimane o meglio ancora alcuni mesi, prima di entrare nella “fascia stretta” al livello a cui la lira si sarebbe assestata. Ci trasciniamo ancora il peso di questo errore; in un’unione monetaria possiamo curarlo solo con maggiore produttività e competitività. In secondo luogo, firmato il Trattato di Maastricht ed ottenuta (grazie all’’emendamento Carli’, ossia il requisito che si andasse verso una riduzione del debito pubblico non che tale debito scendesse al di sotto del 60% del Pil), demmo segnali che non avremmo attuato le politiche economiche richieste dal percorso a tappe per entrare nella moneta unica.

Il confronto

Ci fu una lunga e difficile campagna elettorale, seguita dalle stragi di mafia, dallo scoppio di Tangentopoli e dalle difficoltà di formare un governo i cui ministri non cadessero uno dopo l’altro in indagini giudiziarie. Il panorama europeo era ancora più complesso; per referendum, la Danimarca aveva voltato le spalle all’unione monetaria. Svolte analoghe erano state annunciate da Gran Bretagna e Svezia. In breve, i mercati internazionali pensarono che l’euro non sarebbe stato mai creato e cominciarono a svendere valute dei Paesi più deboli per acquistare marchi. In Italia, la politica economica latitava dal 1990; non si era riusciti a varare neanche la più timida riforma della previdenza. Quando nel 1992 venne formato il Governo Amato, l’unico strumento a disposizione furono alcuni decreti legge che, per la loro attuazione, richiedevano numerosissimi decreti delegati da parte di un Governo e di un Parlamento sotto lo schiaffo della magistratura.

Le riforme fatte e il livello di indebitamento

Il quadro odierno non è certo roseo, specialmente a ragione del cattivo andamento (da sette anni) dell’economia reale e della contrazione della produzione industrial-manufatturiera. Tuttavia, in comparti critici alla base della crisi del 1992 (pensioni, mercato del lavoro, riorganizzazione del settore bancario, ed anche sanità e istruzione) sono state fatte riforme che cominciano a dare i propri frutti in termine di decelerazione della spesa di parte corrente. L’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni è ben al di sotto del 3% del Pil. Se la barra di politica economica è tenuta dritta (e se alcune norme europee vengono interpretate in misura più favorevole alla crescita) possiamo anche prefigurare una graduale riduzione del rapporto debito: Pil.

Le differenze con il ’92

Per frammentato e confuso che sia il quadro politico non è come quello del 1992 quando i maggiori partiti si liquefacevano; anzi, dopo essersi osteggiate violentemente per anni le due maggiori forze politiche stanno cercando di traghettare insieme l’uscita dalla crisi. La prova più eloquente è che non abbiamo fatto ricorso ai vari fondi Salva-Stati istituiti nell’unione monetaria ma vi abbiamo versato 60 miliardi di euro, mentre nel 1992 avevamo esaurite le garanzie nonostante avessi dato in pegno le nostre riserve.

Un Fiscal Cliff all’italiana?

Ciò non vuol dire che non c’è il pericolo di un Fiscal Cliff all’italiana. Siamo su sentiero stretto ed in salita che richiede riforme istituzionali (con urgenza una nuova legge elettorale), un’effettiva revisione della spesa di parte corrente, forse misure straordinarie sul debito, e soprattutto stimoli alla crescita dal lato sia della domanda sia dell’offerta. Necessità principalmente di uscire dal clima di sfiducia in noi stessi in cui ci siamo messi da alcuni anni.


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