Il decreto legge n. 76 del 2013, meglio conosciuto come “pacchetto lavoro”, al di là delle polemiche sui contenuti, ha un’evidente stranezza: imbocca, per riformare il mercato del lavoro, due opposte direzioni.
Per un verso, sembra voler creare occupazione stabile. In tale direzione, ad esempio, prevede un incentivo fino a un massimo di 650 euro della durata di 18 mesi in favore dei datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato; e della durata di 12 in favore di quelli che trasformano rapporti di lavoro a termine.
O ancora, ulteriori restrizioni, rispetto a quelle esistenti, per la stipula del contratto a progetto e del contratto di lavoro intermittente.
Per altro verso, sembra voler creare occupazione precaria. In tale direzione, ad esempio, prevede la possibilità di stipulare contratti a termine “acausali” di cui all’art. 1, comma 1 bis del d.lgs. n. 368 del 2001 in tutte le ipotesi individuate dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative; o inoltre quella, stando al dato letterale, di prorogare tali contratti fino ad un massimo di 36 mesi.
Su un piano ideologico, il pacchetto lavoro ha dunque l’effetto di aprire contemporaneamente a due posizioni antitetiche per tradizione. Da un parte, quella a difesa della stabilità dei rapporti di lavoro; dall’altra quella che vede, in questa difesa, un ostacolo alla crescita e, nella flessibilità, viceversa la soluzione.
Invece, sino ad oggi, le leggi sul lavoro hanno sempre preso le mosse da un’unica e ben chiara visione ideologica.
Prendiamo ad esempio quelle che hanno introdotto maggiori cambiamenti: lo Statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970), la riforma Biagi (d.lgs. n. 276 del 2003) e, da ultimo, la riforma Fornero (l. n. 92 del 2012).
La prima ha fatto entrare la Costituzione in fabbrica sull’idea di Di Vittorio del 1952 e, per questa via, garantito ai lavoratori, da un lato, le tutele basilari del rapporto di lavoro, dall’altro, un’occupazione stabile; la seconda, preso atto della crisi dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ha creato, anche sulla scorta del pacchetto Treu (l. n. 196 del 1997), il fenomeno del lavoro flessibile; la terza ha ristretto il perimetro della flessibilità in entrata e divaricato quello della flessibilità uscita.
Ed allora, bisogna cercare una spiegazione a questo strano intervento del legislatore. Ma oltre i confini, in Europa.
Verosimilmente, l’intervento del nuovo Governo è stato dettato, più che dalla necessità di riformare il mercato del lavoro, da quella di dimostrare all’UE di avere potenzialità di crescita, anzitutto nell’ottica di accedere alle risorse in ballo, e quindi dall’urgenza di allinearsi, almeno sulla carta, agli ambiziosi standard del “Youth Guarantee Scheme” .
E così, il Governo, ha dovuto trovare in tempi rapidi la quadratura del cerchio e soprattutto, data la posta in ballo, non ha potuto correre il rischio di incontrare veti incrociati all’interno dell’esecutivo.
Di conseguenza, pur di sfangarla, ha accontentato tutti e, in questo senso, con una ingegneria legislativa, accozzato due opposte visioni di riforma del lavoro.
Ora, sicuramente un decreto così congegnato non produrrà gli effetti desiderati, soprattutto perché genererà confusione tra chi dovrà maneggiarlo. Il dilemma sarà infatti se assumere a tempo indeterminato o a termine per trovare più convenienza.
Se così stanno le cose, allora il Governo farebbe bene a togliersi dall’imbarazzo e a puntare, con il prossimo pacchetto, a soluzioni chiare e trasversali. Ad esempio, la defiscalizzazione del cuneo fiscale potrebbe mettere tutti d’accordo e, soprattutto, promuovere le assunzioni a tempo indeterminato o a termine che siano.
Si tratterebbe, in fondo, solamente di correggere il tiro per il bene del Paese.