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Il Pd e la congiura delle primarie per far fuori Renzi

Grazie all’autorizzazione dell’editore, pubblichiamo il commento di Sergio Soave apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Le cosiddette «primarie», cioè la consultazione dell’elettorato più attivo per scegliere il candidato del Partito Democratico alla guida del governo o il segretario del partito, sono state a lungo considerate un pregio della sinistra, una innovazione capace di produrre partecipazione e di assicurare successo. Però i fatti, prima la sconfitta, per la verità scontata, di Walter Veltroni, ma soprattutto la mancata vittoria di Pier Luigi Bersani nel confronto con un centrodestra che sembrava in disfacimento e che ha comunque subito un salasso elettorale assai consistente, ha cominciato a seminare dubbi sul carattere miracoloso delle primarie «aperte» sia all’interno sia all’esterno del Pd.

Da questo ripensamento non privo di argomenti cerca di trarre vantaggio l’area che non vede di buon occhio l’elezione a segretario democratico di Matteo Renzi (nella foto), considerato imbattibile in una votazione cui possano partecipare i semplici elettori, mentre si pensa che troverebbe molte difficoltà in una platea elettorale costituita dai soli iscritti. Così una riflessione che avrebbe potuto essere condotta in modo unitario per trovare la soluzione più adatta a garantire una guida del partito, e in caso di vittoria elettorale del governo facendo tesoro delle esperienze e degli insuccessi, si è trasformata in un’operazione di esclusione che ha il cattivo sentore della congiura oligarchica.

La maggiore difficoltà interna del Partito Democratico, che si trasmette poi al sistema politico è proprio questa tendenza a trasformare immediatamente qualsiasi confronto in uno schieramento, una specie di riflesso pavloviano che impedisce di prendere in considerazione le opinioni degli altri con serietà e attenzione. Si tratta di una situazione che provoca danni che si allargano a cerchi concentrici, da una vita interna al partito che si trasforma in una coabitazione rissosa, si arriva a coalizioni elettorali dello stesso tipo e, ora, addirittura a un governo basato sulla convergenza obbligata degli opposti. Naturalmente la dialettica all’interno di una formazione politica democratica è fisiologica e salutare, ma il Partito Democratico non è riuscito a definire una prassi di confronto interno comunemente accettata e quindi continua a cambiare le regole a ogni appuntamento, salvo poi realizzare uno scontro ancora più aspro proprio sulle regole. Uno dei caposaldi della democrazia italiana, quello di centrosinistra, mostra in questo modo una grave debolezza, proprio mentre l’altro, quello di centrodestra, accentua la sua dipendenza dalle sorti personali del suo fondatore.



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