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In concorso a Venezia: Via Castellana Bandiera.

Emma Dante è in libreria, pardon al cinema, in concorso a Venezia con “Via Castellana Bandiera”. Il suo primo romanzo, pardon film. Romanzo metabolico è “Via Castellana Bandiera”. Una strada, un budello. Due macchine, due calcoli biliari. Dolore, tanto.
“Via Castellana Bandiera” si inserisce nel solco scavato dall’aratro dei grandi narratori siciliani. “Paolo il caldo” di Brancati, “Carrubbe e Cavalieri” di Poidomani.
Il primo, sicuramente il più famoso dei due, di cui il pubblico ricorda il “Bell’Antonio”. Il secondo, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta letteratura sommersa, straordinario interprete della narrativa Iblea.
“Via Castellana Bandiera” si svolge in Sicilia. La storia, le descrizione, i fatti che lo animano si dipartono, come fiamme ingovernabili, dalla via che dà il titolo al romanzo. Via Castellana Bandiera appunto. La posizione d’innesco. E’ lì, in questa strada che non permette il transito nei due sensi di marcia. E’ lì che le due donne, Rosa e Samira, si sbarrano la strada vicendevolmente.
Ma dalla Sicilia prende le distanze. Attraverso una serie di viaggi. Quello per recuperare le informazioni di Samira. Albanese, arrivata in Italia con uno dei tanti viaggi della speranza. Quello di Clara, amica di Rosa, onirico, a Milano. Prende le distanze anche per via della lente deformante sotto cui i personaggi vengono visti e immaginati da chi scrive e monta la pellicola. Da chi legge e vede. Da Emma Dante, gallo silvestre dal balcone di casa sua nPalermu in Via Castellana Bandiera.
L’aggettivazione del romanzo, che nel film diventa la fotografia, rende ciascuno dei personaggi, un istante prima siciliano, ed un istante dopo, una caricatura dello stesso. Ogni pennellata, in ogni fotogramma, non ha il compito di radicare territorialmente il bozzetto del personaggio, ma vuole indagare su una data disposizione d’animo. Sulla determinata fase dell’incessante metamorfosi, della erosione chimica che ognuno di noi subisce. Inesorabilmente.
I personaggi, specie quelli della famiglia di Samira, sono sicilianissimi. Certo. Prendete Rosario Calafiore. L’equivalente di Antonio Barracano del Rione Sanità di Eduardo. E’ picaresco quando pianifica e progetta espedienti e truffe col compare Mangiapane. E’ “trivulu i casa e spassu i vanedda”, ovvero tanto capace di risultare simpatico nel suo bullismo fuori di casa (‘nta vanedda), quanto orco, sopraffattore, violento e malvagio dentro le mura di casa. Dentro le mura di casa. Già. Altro liet motiv.
Via Castellana Bandiera è il romanzo delle isole. I personaggi appaiono, ciascuno, un’isola rispetto agli altri. Ciascuno che marca il suo territorio. Un po’ cani ed un po’ indiani. Un po’ borghesi ed un po’ tribali. Isole, anche quando, sembra, che i legami siano saldi e veri.
Prendete le due donne: Rosa e Clara. Due donne che si amano. Amore sbagliato, però. Perché diverso e contro natura. Non tollerato. Non ammesso, a maggior ragione in Sicilia. Contrario alla convenzionale immagine della donna: pecora ed alla pecorina.
Isole e trappole. Trappole intrappolate, intrappolanti. Le due donne sono ferme in un punto della loro vita. L’impasse fisica diventa metaforica. Il plot scorre quando il rubinetto delle anime delle protagoniste si chiude. Idraulicamente impossibile. Letterariamente impetuoso.
Le descrizioni sono fagiche, truculente, realiste fino all’inimmaginabile. Scavano, come due canini, sotto l’epidermide dell’asfalto su cui scivolano liquami, piscio e merda. Una strada stretta, strettissima di Palermo è raccontata come fosse un cadavere, un corpo umano in decomposizione. Via Castellana Bandiera è un’analisi anatomopatologa. Pensate, se potete, ai macellai di Corinth.

Un romanzo in cui scorre sordo, carsicamente, il senso della morte. Che ritorna. Continuamente. Samira è magrissima. Muta. Mangiata dal dolore. Solchi profondi le segnano il viso e nei suoi occhi neri c’è qualcosa che incute timore: Samira aspetta di morire.
Clara e Rosa mentre cercano invano di trovare la strada si imbattono in una bara abbandonata con i cardini arrugginiti nei pressi di un cassonetto.

Brancati e Poidomani sono stati grandi interpreti della sicilianità. Inimitabili. L’hanno scandagliata nelle sue contraddizioni, nelle sue storture e nelle sue calure. Sono stati capaci di rinchiudere lo scirocco dentro la sintassi, tra le righe. Come Eolo, il vento nell’otre.
Lo scirocco, quel vento umido ed appiccicoso che porta i bollori del sesso ma anche la pesantezza della vita. Che rende difficile il respiro. Che segna la fine della bella stagione. Della vita.
Eppure, in questi scrittori, non mancava l’umorismo. Nel senso classico, a mitigare l’urgenza della realtà immanente, cruda e vera. Diaframma e rene di questa vita metabolica che permette di avvicinare la sua complessità carbossilica. In Emma Dante l’umorismo è, invece, volutamente assente.

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