Industria debole e calo della produzione preoccupante. Il giudizio, che poco incoraggia, arriva da uno studio di Bankitalia su “sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi”. Il dibattito sulla competitività delle imprese italiane, secondo gli economisti di Via Nazionale, è imperniato sul costo del lavoro. Un discorso “fuorviante” e non vero perché le analisi dimostrano che ad aver determinato il declino, “non irreversibile”, dell’industria, frenandone la competitività, sono state soprattutto le alte tasse, i costi dell’energia e “gli oneri determinati dalle inefficienze della burocrazia e della giustizia civile”. Non, in primis, il costo del lavoro.
Energia e pressione fiscale
Il declino dell’industria italiana “non è irreversibile, purché le imprese sappiano trasformarsi”. In pratica Bankitalia fa un check up completo all’impresa italiana, indicando carenze ma anche possibili aree di intervento. E rompe anche qualche tabù che alimenta il dibattito economico. Il costo del lavoro, “se valutato al netto della tassazione, non risulta un fattore di freno primario per la competitività delle imprese italiane”, mentre “i costi dell’energia e una pressione fiscalemolto elevata sull’economia regolare rendono più difficile alle imprese competere”.
Il crollo del Pil e della produzione industriale
“Rispetto al 2007 – si legge sul rapporto di Bankitalia curato anche da Daniele Franco, attuale Ragioniere generale dello Stato a tempo – il Pil è sceso di 7 punti percentuali. L’industria è il settore ove il calo della produzione, sia nella componente manifatturiera sia in quella delle costruzioni, è stato più forte. All’inizio del 2013 la produzione industriale risultava inferiore di circa un quarto al livello pre-crisi”, e la caduta della produzione industriale è avvenuta anche in quei settori, “autovetture, elettrodomestici e calzature, che a lungo hanno caratterizzato la specializzazione produttiva dell’economia italiana. È una flessione che, se prolungata, può influenzare negativamente il potenziale produttivo e le prospettive future dell’economia italiana”.
Domanda e offerta
Un secondo tabù? “Le carenze in termini di miglioramento dell’efficienza produttiva – prosegue lo studio – non sono il riflesso di una domanda interna stagnante, ma discendono da debolezze dal lato dell’offerta”. Come dire: c’è qualche colpa anche sul fronte industriale, anche in termini di innovazione di prodotto.
L’impatto della crisi è poi stato fortissimo su alcune roccaforti del Made in Italy come il tessile e le calzature: la flessione è stata rispettivamente 30,7% e e del 39,1%. Ma – segnala Bankitalia – è una tendenza di lungo periodo: dalla seconda metà degli anni ’90 i livelli produttivi si sono ridotti del 50 e del 70%. Per l’auto, invece, il calo da allora è del 60%.
Il fisco
Le caratteristiche che non aiutano la produttività sono moltissime. Più che il costo del lavoro c’è la pressione fiscale che in Italia è superiore di 2,5 punti percentuali ai Paesi dell’area dell’euro. Considerando anche l’Irap, l’aliquota legale sui redditi delle società è più alta di 5 punti. Lo stesso vale per il “cuneo fiscale” che è il vero nodo del costo del lavoro. La controprova? “La retribuzione netta di un lavoratore medio celibe – dice il rapporto – era nel 2011 in Italia !inferiore del 15% rispetto al Belgio e alla Francia, di circa il 20% rispetto all’Austria e di poco più del 30% rispetto alla Germania“. Il capitolo energia non aiuta di più. “I prezzi sostenuti dalle aziende italiane per gli acquisti di energia elettrica, che costituiscono oltre la metà delle spese energetiche delle imprese industriali, sono superiori di circa il 30% rispetto alle loro concorrenti europee”.
Il ruolo dell’industria: tutti i numeri
Ma, secondo Via Nazionale, rilanciare lo sviluppo industriale italiano, lungo più moderne direttrici, “è una priorità per la nostra politica economica. Nel 2012 l’industria italiana ha prodotto 257 miliardi di euro di valore aggiunto, con un’occupazione di 4,7 milioni di addetti. Rappresenta oggi meno del 20 per cento del valore aggiunto e dell’occupazione complessivi, ma è una fonte fondamentale di innovazione e competitività (effettua oltre il 70 per cento della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e ha un ruolo decisivo nell’equilibrio dei conti con l’estero (contribuisce per quasi l’80 per cento alle esportazioni). Utilizzando sempre più servizi, essa agisce anche da traino per il settore terziario: le esportazioni industriali incorporano valore aggiunto prodotto dal settore dei servizi per il 40 per cento del proprio valore complessivo”.
Le soluzioni
Ecco come dovrebbe muoversi, secondo Bankitalia, una politica economica per il rilancio del settore industriale. Le linee su cui spaziare sono tre.
1. Riallocazione delle risorse
Primo, “è necessario intervenire sui meccanismi di allocazione delle risorse (capitale e lavoro, nelle loro molteplici caratterizzazioni) dai settori e dalle imprese meno produttive a quelli più produttivi, dalle lavorazioni in cui la pressione competitiva dei paesi emergenti non è sostenibile ad altre più avanzate e complesse”.
2. Meno costi energetici, burocratici, fiscali, infrastrutturali
Secondo, vanno ridotti “i costi sopportati dalle imprese italiane, sia quelli energetici, che incidono
in modo particolare sull’industria, sia quelli derivanti da un quadro regolamentare complesso e oneroso, da una pressione fiscale molto elevata sull’economia regolare, dalle inefficienze della pubblica amministrazione, dalle carenze nei servizi pubblici e nelle infrastrutture”.
3. Una politica industriale seria e omogenea
Terzo, occorre rendere le politiche industriali “meno invasive e frammentarie. Esse devono puntare a rimediare ai principali elementi di debolezza del nostro sistema produttivo, favorendo il diffondersi di strategie d’impresa più adatte al nuovo contesto competitivo globale. Le limitate risorse finanziarie pubbliche vanno indirizzate a favorire la crescita dimensionale delle imprese, a sostenere l’attività di ricerca e sviluppo (R&S) e a intensificare la nascita di imprese start-up innovative; al sistema finanziario si chiede di accrescere la capacità di fornire alle imprese capitale di rischio per sostenere l’innovazione”.