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Kazakhstan: e se Shalabayeva volesse essere espulsa?

Gli appassionati lettori di gialli probabilmente conoscono già il concetto di inferenza induttiva. Sherlock Holmes, il celebre investigatore protagonista di molti romanzi di Arthur Conan Doyle, soleva risolvere con questo strumento di conoscenza i suoi casi più intricati. Il metodo è tanto semplice, quanto difficile da applicare: partendo da una deduzione, si stabilisce una connessione che rivela in modo improvviso la concatenazione di determinati eventi, fino ad allora ignota. Che poi, come ovvio, va dimostrata con prove.

Un metodo che qualcuno nei vicoli e nei palazzi romani, tra il serio e il faceto, si è divertito ad applicare al giallo kazako.

C’è un dettaglio finora non toccato nei fiumi di parole e inchiostro versati in questa vicenda, che potrebbe però gettare una nuova luce sul caso.

Premessa. La notte dell’irruzione nella villa romana di Casal Palocco, in casa con la signora Alma Shalabayeva, oltre alla figlia Alua c’era anche suo cognato Bolat Seraliev.

Intorno alle 4 del mattino, non avendo trovato il marito della donna, il dissidente Mukhtar Ablyazov, gli uomini della Polizia conducono Alma e Bolat in quella che le ricostruzioni descrivono come una caserma e infine i due vengono separati. Alma la sera dopo dorme negli uffici dell’immigrazione e Bolat torna a casa.

Alle 6,30 del mattino del 31 maggio altri agenti tornano nella villa e portano Bolat a Roma per ulteriori accertamenti, dandogli poi la facoltà di rimanere in Italia.

È qui che potrebbe scattare una banale, ma non secondaria osservazione ai fini della comprensione del caso.

Il cognato della signora Shalabayeva, sin dal momento dell’irruzione, ha mostrato alla Polizia il suo vero passaporto kazako, attraverso il quale è stato in grado di “congelare”, come la legislazione internazionale gli consentiva, la sua espulsione dall’Italia, chiedendo asilo politico.

La donna, invece, ha prima esibito un passaporto diplomatico intestato a tale Alma Ayan, che la Polizia ha erroneamente ritenuto falso, ma si è guardata bene dal mostrare il suo vero documento kazako. Perché non lo ha fatto, dal momento che mostrandolo avrebbe potuto dare alla Polizia la certezza di avere di fronte la moglie di un dissidente – Londra ha offerto accoglienza a suo marito – avendo così innegabile diritto ad asilo politico?

E quand’anche se, come si cerca di stabilire in queste ore, la Polizia fosse a conoscenza che la signora fosse in realtà la moglie del dissidente Ablyazov, perché lei non ha mai nemmeno tentato di appellarsi, come invece ha fatto suo cognato, al suo diritto alla protezione?

Che la donna avesse un altro documento e che volesse richiedere asilo lo si è scoperto solo per voce dei legali di Ablyazov, una volta che la signora Shalabayeva era già tranquillamente atterrata ad Astana. Dettagli, questi, che nemmeno la donna smentisce, alimentando così ancora di più un mistero che vede in queste riflessioni l’unico punto davvero illogico.

E se invece, come sussurrano i bene informati, non fosse stata la stessa donna – in rotta col marito per questa difficile vita in esilio e desiderosa di fare rientro in Kazakhstan per riabbracciare la sua famiglia e dare a sua figlia una vita normale – ad essersi lasciata rimpatriare senza opporre alcuna resistenza?

Per ora solo deduzioni. Se ci saranno prove, lo scopriremo nei capitoli finali di questo giallo kazako.



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