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Cari Letta e Giovannini, la vostra riforma del lavoro non convince le aziende

Tante chiacchiere, pochi fatti. E parole buone da contraddire, come quelle del premier Enrico Letta sugli alibi che non avrebbero più le imprese italiane per assumere dopo la riforma del lavoro firmata dal ministro Enrico Giovannini. Un decreto smontato a livello giuridico, economico e non solo, da Michele Tiraboschi, giuslavorista, allievo di Marco Biagi e coordinatore del comitato scientifico di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro.

Fase due dopo una prima non operativa

Il Governo, sul lavoro, “invece di occuparsi di come rendere effettivamente operativa una normativa che necessita di decine di provvedimenti attuativi, ora già parla di una imminente ‘fase due’ – spiega Tiraboschi in una prima analisi del decreto lavoro: “La retorica degli annunci” -. Né più né meno di quanto accaduto dallo scorso 24 aprile. E cioè dal giorno in cui, nell’accettare con riserva l’incarico di guidare il Governo, Enrico Letta aveva messo al centro della sua agenda il lavoro e l’occupazione giovanile in particolare, indicata come la vera priorità sui cui convergere sforzi, risorse ed energie”.

Le semplificazioni stracciate e i nuovi posti di lavoro (veri)

Secondo Tiraboschi non è fuori luogo “leggere la nuova riforma non solo con gli occhi severi del giurista e dell’economista. L’uno intento a cogliere quelle corpose semplificazioni normative, annunciate dal Ministro del lavoro nell’ambito del cosiddetto piano Expo 2015, e che tuttavia, pur presenti nella bozza di decreto entrato in Consiglio dei Ministri, sono poi state stralciate al pari del corposo schema di intervento sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni. L’altro pronto a far di conto per dimostrare, dati alla mano (vedi per esempio Tito Boeri su Lavoce.info), che i posti di lavoro potenziali, stante i massimali di spesa e la spalmatura negli anni delle risorse, saranno decisamente molti meno di quelli annunciati dal Ministro. Poco meno di 30 mila per anno e, prevalentemente, in relazione ad assunzioni già decise dalle imprese“, sottolinea.

Gli annunci e la realtà 

“Ancor più eclatante, a ben vedere, è lo scarto tra i molti annunci sulle misure che sarebbero state di lì a poco introdotte e quello che poi è realmente confluito nel decreto – osserva -. A lungo si è parlato di staffetta generazionale e di youth guarantee, di reddito di cittadinanza e salario minimo garantito, di rilancio dell’apprendistato e ripristino, quantomeno in via sperimentale, nell’ambito del piano Expo 2015, delle flessibilità negate dalla legge Fornero. Eppure quasi nulla di questo si trova nel provvedimento varato dal Consiglio dei Ministri di mercoledì 26 giugno. Al punto da indurre più di un osservatore a concludere che, ancora una volta nel nostro Paese, la montagna ha partorito un topolino”.

La fiducia che non c’è

Su temi sensibili e delicati come quelli del lavoro occorre però “evitare facili promesse e false illusioni perché la vera svolta non potrà che dipendere da un rinnovato clima di fiducia da parte delle imprese che ancora stenta a emergere. E la fiducia, si sa, si conquista con i fatti e non con gli annunci anche perché, in questa fase dell’economia, le imprese non hanno tanto alibi per non assumere, quanto un problema più basilare che, molto semplicemente, è quello di sopravvivere”, conclude.


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