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L’Islam finanziario che si prepara per l’Europa

Alla fine quello che la crisi ha provocato, a parte i noti disastri sociali, è stato un gigantesco ripensamento. Davvero viviamo nel migliore dei mondi (finanziari) possibili?

Se fate questa domanda a un qualunque cittadino, che ne ha sofferto i danni, vi risponderà di no. Se la fate a un politico, vi dirà che servono le solite riforme ma che comunque la priorità è il lavoro. Se la fate a un banchiere, vi dirà che ci sono stati eccessi, ma che comunque la finanza è cosa buona e giusta. Se la fate a un banchiere centrale,  dirà le stesse cose del banchiere, ma aggiungerà che serve una maggiore regolazione, come di recente ha sottolineato il presidente della Bundesbank Jens Weidmann a un convegno della FESE.

Sostanzialmente, quindi, sono tutti d’accordo.

Allora facciamoci un’altra domanda. Se ci fosse un’alternativa, che prevede una finanza meno speculativa e più “repressa”, e perciò più equilibrata e meno eccessiva, anche se di sicuro meno profittevole, avreste voglia di saperne di più?

La Bce deve aver pensato di sì, visto che pochi giorni fa ha rilasciato un utilissimo paper intitolato “Islamic finance in Europe” che ha il merito di spiegare cosa sia questa esoterica modalità di gestione dei mercati, e quanto pesi in cifre nel nostro continente e nel mondo.

Cominciamo dai principi. Il primo principio della finanza islamica è che il pagamento degli interessi è proibito. Le banche, quindi, quando concedono un prestito devono usare dei contratti con i quali si espongono direttamente al settore reale, obbligandosi di conseguenza a garantire un’efficiente gestione del rischio. Il secondo principio riguarda la partecipazione alle perdite e ai profitti. Ogni controparte di una transazione deve condividere il rischio. In tal modo le perdite o i guadagni sono minimizzati. Studi empirici hanno mostrato che la rischiosità del sistema finanziario islamico è meno della metà di quello occidentale. E i profitti di conseguenza. Le banche islamiche, infatti, hanno un livello di efficienza (ossia profittabilità) basso rispetto alle nostre banche. Ma abbiamo già visto che l’esigenza delle banche di fare alti profitti ha un diretto impatto sui rischi sistemici.

Il terzo principio è la proibizione degli investimenti “incerti” e della speculazione. La presa di rischi è consentita solo quando i termini del contratto sono esattamente specificati e ben conosciuti dalle parti. Il quarto principio è che ogni operazione finanziaria deve essere ancorata all’economia reale, ossia deve avere “sotto” un bene tangibile o identificabile. Ciò al fine di obbligare le banche a rimanere connesse all’economia reale. Niente castelli di carta, insomma.

A questo punto molti penseranno che la finanza islamica assomigli davvero al migliore dei mondi possibili.

Ma è più interessante notare che l’Islam finanziario condivide con la nostra finanza alcune aspetti, presente, ma soprattutto passati.

Il principio della partecipazione al rischio e alle perdite, ad esempio, è tipica del nostro venture capital. Il divieto di prestito a interesse è stato un principio europeo per secoli. Il principio di un sottostante ancorato alle transazioni finanziarie ha guidato la nascita dei mercati finanziari in Europa nel basso Medioevo, quando la finanza è stata inventata per servire le necessità del commercio. E gli esempi potrebbero continuare.

Ma quello che più di tutto salta all’occhio è che la finanza islamica, proprio per i principi che esprime, ha il chiaro scopo di favorire quello che Keynes chiamava il “matrimonio fra creditore e debitore”. E quindi, implicitamente, il pagamento dei debiti.

La parola stessa finanza, secondo illustri studiosi, deriva proprio dal latino finis, ossia conclusione, quindi pagamento dei debiti. Esattamente quello che oggi NON avviene con la finanza occidentale, che ha il fine contrario, ossia diradare il tempo del pagamento, escogitando strumenti per rendere i debiti sostenibile, anziché pagabili.

Per tornare al presente, la finanza islamica condivide anche un’esigenza che è stata posta con forza nel dibattito europeo sul futuro della finanza, ossia il principio della responsabilità, che ha già segnato un’importante evoluzione nel processo di legislazione sull’unione bancaria europea.

Il gigantesco ripensamento, di fatto, potrebbe avvicinare la finanza europea a quella islamica, visto che il comune sentire dei popoli euro-asiatici, per tradizioni e “reminiscenze”, è molto più vicino a quest’ultima che a quella angloamericana.

Anche perché la finanza basata sulla Shari’ah non è un sogno, ma una solida realtà.

La Bce calcola che il valore internazionale degli asset gestiti con criteri finanziari islamici è passato dai 150 miliardi di dollari di metà anni ’90, a oltre 1.600 miliardi di fine 2012, con previsioni di superare i 2.000 quest’anno. Le banche islamiche sono le grandi protagoniste di questa montagna di ricchezza, di cui gestiscono circa l’80%. Queste banche sono diffuse in Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar e in alcuni paesi del sud est asiatico come la Malesia.

Nell’Unione europea, nota la Bce, “la finanza islamica è ancora allo stato embrionale, ma una serie di fattori ne fanno immaginare un ulteriore sviluppo”. Per quanto in fase embrionale, tuttavia, l’Europa si classifica ai primi posti come area geografica di destinazione degli investimenti di fondi, assicurazioni e banche islamiche, molto al di sotto degli Usa. Così come l’Europa è mèta ambita degli investimenti di molti fondi sovrani che arrivano dall’Oriente.

Non è certo un caso: il dispotismo euro-asiatico si trova molto a suo agio con una finanza siffatta. E infatti moltissimi stati europei hanno favorito e incoraggiato questa singolare forma di finanziarizzazione.

La Francia, ad esempio, ha “dato un forte supporto”, scrive la Bce, per la creazione di un ambiente favorevole alla finanza islamica.

La Germania, addirittura, è stato il primo paese occidentale a sperimentare un’emissione di bond islamic-based nel 2004. Il bond fu emesso dalla Sassonia ed ebbe uno straordinario successo, attraendo capitali dal Bahrain e dagli Emirati per il 60% e per la restante parte da Francia e Germania. Il matrimonio ha portato fortuna ai tedeschi, che da allora hanno stretto i rapporti e adesso partecipano all’industria finanziaria islamica in mezzo mondo. La Bce stima che “le prospettive di sviluppi ulteriori della finanza islamica in Germania sono molto solide”.

Poi c’è l’Italia, dove la finanza islamica ha conosciuto uno sviluppo fra i più rapidi, scrive la Bce. Al momento la banche islamiche residenti in Italia si prevede raggiungeranno depositi  per 5,8 miliardi a ffronte di ricavi previsti per 218,6 milioni nel 2015.

Quindi l’Irlanda, che grazie anche alla sua legislazione fiscale si è dimostrata molto attrattiva per i finanzieri islamici. Il governo irlandese ha addirittura creato un team che discute attivamente con i fondi di investimento islamici, che hanno trovato una calda ospitalità. Come d’altronde anche in Lussemburgo, notoriamente molto accogliente con chi porta denaro fresco. Non a caso è il secondo paese, dopo gli Usa, per il valore dell’industria di fondi di investimento. E proprio in Lussemburgo le banche tedesche hanno lanciato una piattaforma di trading, che si chiama al-Mi ‘yar, dedicata all’emissione di obbligazioni islamiche.

Ma grandi protagonisti di questa “evoluzione” sono anche gli inglesi, forti della posizione di supremazia europea nei mercati finanziari. In Gran Bretagna, infatti, la finanza islamica ha trovato casa sin dal 1980 e da allora non ha mai smesso di crescere, grazie anche alla compiacenza del governo.

Lo sviluppo europeo della finanza islamica, insomma, ha una singolare caratteristica: è comune a tutti i paesi, siano essi Pigs o non Pigs, siano essi dentro o fuori dall’euro. E’ una finanza che unisce.

Un’altra caratteristica è che mentre negli Usa la finanza islamica si è sviluppata solo a livello di credito al consumo, in Europa, come ho accennato, ha riguardato i gangli del sistema finanziario, non le sue applicazioni consumer. Evidentemente, per le ragioni storiche alle quali ho rapidamente accennato, in Europa l’Islam finanziario attecchisce meglio.

E, a quanto scrive la Bce, attecchirà sempre di più in futuro per una serie di fattori.

Quali sono questi fattori? Primo “gli incentivi e le misure introdotte dai governi per creare un ambiente favorevole all’industria finanziaria islamica”; secondo “la crescente enfasi su alternative finanziarie provocata dalla crisi”; terzo, più corposo, “il desidero sostanziale di attrarre liquidità dai paesi emergenti”. Molti dei quali sono islamici, appunto. E sono gli stessi che incassano cospicui dividendi dalle loro rendite petrolifere.

Ultima considerazione. Il sistema della finanza islamica, proprio perché meno rischioso, si è dimostrato assai più resiliente (quindi più capace di affrontare gli shock) di quello occidentale. L’Europa, come dimostrano gli infiniti convegni sul suo futuro finanziario che si svolgono in questi mesi, è affamata di resilienza. Solo che non vuole pagarne il prezzo, ossia rinunciare agli alti dividendi che la turbofinanza assicura, finché funziona.

Ma se l’Europa continuerà a dimagrire, e se trionferà come pare il Berliner consensus, la finanza islamica, o meglio i suoi principi, potrebbe diventare la cornice entro la quale si svilupperanno i mercati euro-asiatici.

E’ già successo, centinaia e centinaia di anni fa, che il mondo arabo sia venuto in Europa a portare cultura e commercio sulla punta della sua spada curva.

All’epoca servivano le armi per  imporsi sui mercati.

Oggi bastano buone banche.



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