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Lumen Fidei: quando corruzione e fuga fedeli sono manifeste

 

Ospito volentieri questa approfondita analisi di Noemi Ghetti sull’enciclica di Papa Francesco ‘Lumen Fidei’, pubblicata su babylonpost.globalist.it

Lumen fidei, la prima enciclica di papa Francesco, è uscita da qualche giorno. Scritta a quattro mani, come gli ambienti vaticani hanno tenuto a sottolineare, nonostante rechi la sola firma di Bergoglio. Come a dire che nell’approccio ratzingeriano e in quello bergogliano alla questione della verità cristiana non ci sono né fratture né contrasti. Solo uno “spostamento”, come nota Mario Tronti (l’Unità del 14 luglio: L’Enciclica e la critica dell’individualismo) da “fides et ratio” a “fides atque veritas”. Sotto il comune patrocinio di Dante Alighieri.
Nel 2006, spiegando la sua prima enciclica Deus charitas est, papa Ratzinger aveva confessato di essersi ispirato all’ultimo canto del Paradiso di Dante, nel quale il poeta mostra la continuità tra la ricerca sviluppata dalla ragione e la fede cristiana in Dio, soffermandosi a illustrare i versi finali del poema, in cui Dante parla del volto di Cristo, del mistero trinitario e dell’incarnazione.
A testimone e garante di tale conciliazione tra le posizioni del pontefice tedesco dimissionario e quelle del papa buono “venuto dalla fine del mondo” a sostituirlo, in questa enciclica viene nuovamente chiamato il Sommo poeta, che nella conversione alla fede trovò l’uscita dalla “selva oscura” in cui si era smarrito. Scrive infatti Bergoglio nell’incipit dell’enciclica: “Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”.
Sono versi del canto XXIV del Paradiso, la cantica in cui, con un accorto scambio di omaggi e riverenze, nel cielo del Sole si celebra la conciliazione dei due ordini tradizionalmente rivali, i francescani e i domenicani, come voluti dalla divina provvidenza per la salvezza della Chiesa. L’approccio alla fede mistico di Francesco, fondatore dell’ordine dei frati minori, e quello razionale dei “cani di dio”, ordine a cui apparteneva Tommaso d’Aquino, sono entrambi necessari e complementari per giungere alla Verità.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque: quanto vediamo ora è la riproposizione di uno scambio delle parti che si celebra da secoli. La veste pauperista è necessaria alla Chiesa ogni volta che il grado di corruzione ecclesiastica è scandalosamente manifesto, e che la fuga dei fedeli e il vuoto delle chiese si fanno evidenti. L’importante è che l’edificio dogmatico-dottrinale non venga toccato, e con esso l’impalcatura gerarchica su cui si reggono il potere e la ricchezza della Chiesa cattolica.
Dante, che in virtù delle sue invettive contro gli ecclesiastici corrotti, e magari anche delle letture di Benigni, gode fama di eretico presso un vasto pubblico, di fatto è sempre stato riconosciuto dalla Chiesa stessa come un intellettuale proprio.
Nel 1921, in occasione del sesto centenario della sua morte con l’enciclica In praeclara summorum, interamente dedicata al Sommo poeta, Benedetto XV dichiara che Dante è patrimonio culturale della Chiesa cattolica. Spetta alla Chiesa, in virtù della “intima unione tra Dante e la cattedra di Pietro”, il diritto di presiedere alle celebrazioni mondiali e di chiamare “suo” l’Alighieri.
L’esposizione sapientissima dei dogmi cattolici, la dipendenza da Tommaso, dalla Sacra scrittura e dai Padri, la deferenza per il romano pontefice, al di là delle critiche dovute magari a una «falsa» informazione, fanno della Divina Commedia un “tesoro di dottrina cattolica”, un fondamento dell’educazione che nelle scuole italiane, il papa sottolinea, dovrebbe essere insegnato sotto l’egida della fede, e non “come se Dio non esistesse”.
L’enciclica fu pubblicata un anno prima della marcia su Roma, e otto anni prima dei Patti lateranensi. In questo contesto culturale si colloca la ricerca di Antonio Gramsci su Dante e la Commedia, che percorre tutta la sua attività di scrittore, dagli esordi giornalistici giovanili fino ai Quaderni del carcere. Alla luce di queste rivendicazioni cattoliche in materia di egemonia culturale, comprendiamo meglio anche le illuminanti pagine gramsciane sul ruolo decisivo rappresentato dall’ordine dei Gesuiti e dall’Azione cattolica nella formazione dell’intera classe politica italiana, anche quella di sinistra. Un’analisi che resta preziosa e illuminante tuttora, alla luce delle norme concordatarie in materia di pubblica istruzione. E non solo.
La breccia di Porta Pia del 1870 aveva posto fine alle secolari vicissitudini della “questione della lingua”, in cui il modello di Dante era veicolato attraverso la mediazione dell’umanesimo cristiano di Petrarca, certamente più elegante e raffinato, e soprattutto esente da critiche nei confronti della Chiesa (Petrarca stesso, ricordiamo, prese gli ordini e ricoprì molti incarichi religiosi). Entrambi i poeti infatti fondano la loro ricerca sull’attento studio degli scrittori latini, classici e cristiani. Entrambi incardinano l’attività poetica sulla morte di una donna che apre la strada della redenzione e dell’amore per Dio, rinnegando la ricerca poetica dei Siciliani con i quali era nata la lingua italiana.
Nell’Ottocento la lungimirante scelta di Manzoni di “sciacquare i panni in Arno”, ovvero di procedere ad una minuziosa revisione linguistica della edizione già toscanizzata dei Promessi sposi del 1827, adottando per l’edizione definitiva del 1840 il linguaggio vivo dei fiorentini colti, era diventato programma socio-culturale dello Stato unitario. Nel 1868 nella relazione Dell’unità della lingua, su incarico del ministro dell’istruzione Broglio, l’anziano scrittore propose mezzi e modi per unificare, attraverso l’adozione di un unico vocabolario, la lingua «in tutti gli ordini del popolo». La lingua unificante della Commedia, si intende, di cui fu prescritta la lettura triennale nei licei, a seguito della lettura integrale dei Promessi sposi da farsi al biennio superiore.
Due soli anni dopo, la strategia del neonato stato Vaticano si fa diretta: ha inizio la politica pontificia di rivendicazione delle radici cattoliche dello Stato italiano, e dunque il diritto al riconoscimento della sua presenza spirituale nella vita pubblica. In particolare nell’istruzione. In questo quadro va inserita l’insistenza, di pontefice in pontefice, sull’importanza di Dante, “padre” della lingua italiana unica, ispiratagli direttamente come ad Adamo dal “dittatore Amore”, ovvero da Dio. E rimodellata sul latino ecclesiastico, a scongiurare dopo il suo tramonto il pericolo biblico del risorgere di una nuova Babele delle lingue regionali, veneziano, lombardo, ferrarese, napoletano, siciliano. Perché lingua e pensiero, nella scrittura, sono una cosa sola.
Gesuita francescano, come il nuovo papa, oppure marxista ratzingeriano prontamente convertito in marxista bergogliano, non sono che etichette interscambiabili. Come scrive Mario Tronti sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “Fede e verità significa questo: il doppio senso in cui si può dire il detto di Isaia. Nella versione greca: se non credete, non comprenderete. Nella versione ebraica: se non credete, non resterete saldi. Comprendere, con la ragione, vuole dire stare saldi, nella fede. Allora la verità grande è ‘la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale’. Di qui il bellissimo concetto di ‘esistenza credente’. Io credo questo, oggi, l’unica figura di esistenza veramente libera. Perché il credere a niente porta al credere a tutto. E questa è l’oppressione moderna, la dittatura occidentale, garantita dai diritti, praticata dai comandi, visto che nessun’altra forma di convivenza è possibile, oltre a questa che ci è data. Se la fede è ‘toccare con il cuore’, come dice Agostino, e come sta praticando Bergoglio, allora c’è da introdurre, nel mondo così com’è, la passione di un altro futuro, per le persone, per la società. Mi piacerebbe trovare in un documento congressuale l’audacia e la forza che trovo in una indicazione di questa Enciclica: ‘Trasformare il mondo, illuminare il tempo’”.
Gattopardescamente, che tutto cambi perché nulla cambi. L’essenziale, come recita il motto della Compagnia di Gesù, è che alla fine tutto torni Ad maiorem Dei gloriam. E magari anche della Chiesa di Roma.

Noemi Ghetti

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