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Operazione Quercia: Mussolini a Campo Imperatore

Ha ragione Pier Francesco Pingitore. Abbiamo smarrito la storia. I fatti “storici”, quelli che hanno la distanza “giusta” dalla nostra posizione sull’asse dei tempi per essere guardati bene sia da miopi sia dai presbiti, sono stati seppelliti dalla montagna di tweet che di “storico”, tutti messi assieme, non fanno manco un fatto, uno.
Ecco uno dei meriti di “Operazione Quercia: Mussolini a Campo Imperatore”. Pièce teatrale scritta e diretta da Pier Francesco Pingitore che è andata in scena proprio in quegli stessi luoghi, proprio in quell’albergo dove, prigioniero, il Sig. Mussolini trascorse le ore, dilatate, della storia prima della liberazione per mano tedesca.
Lo spettacolo restituisce un pezzo di storia che fu decisivo, e lo è ancora oggi, per le sorti politiche dell’Italia. Se non altro per ruolo e peso internazionale della penisola.
Teatrale è stato, innanzitutto, il viaggio con cui il gruppo di spettatori ha raggiunto la scena. Dopo l’autostrada costellata di oleandri che l’uomo cerca di copiare col surrogato dei disegni prodotti dai fuochi pirotecnici, il pullman, lento, prende i tornanti che portano all’albergo e che, durante il suo incunearsi nell’altopiano, consente a tutti di prepararsi. Facendo mente locale, esercizio che facciamo sempre più rado, ricordando, almeno succintamente, i fatti di quei giorni, nel Settembre del 43, che gli attori avrebbero, con il di più dell’arte, aiutato a farci rivivere. E così è stato, grazie certamente alla suggestione dei luoghi, ma anche e soprattutto a un credibile Luca Biagini dotato di “eccellente” orografia cranica e di profonda occhiata littoria.
Pingitore è anatomopatologo più che psicologo. Perché buttarla sempre e solo sul percorso interiore è solo una camurria. La pièce non dà giudizi. Ovvio, non doveva certamente preoccuparsi di come raccontare quei fatti. Si è limitata a restituirli cercando la migliore verosimiglianza giocando di sponda con l’autenticità dei luoghi.
Semmai, il problema dell’Italia, e se vogliamo metterci il carico – a differenza della Germania- e quello di non aver “risolto” quella parte di storia limitandosi a mettere pietre sopra. Con l’idea che questi racconti fossero “giudizio” solo per il fatto di fare memoria.
La verità è che i tempi che furono dei wattman, di quegli uomini disposti a rischiare la vita per la gloria, pur di scrivere il proprio nome sulle pagine dei libri storia, danno nostalgia. Non la nostalgia dei nostalgici, ma quella verso una tempra che oggi ha abbandonato le carcasse di noi mortali privi di animo. Mischini webman privi di qualunque propensione al rischio al punto che la cosa più audace che facciamo è installare Windows 8 senza essere sicuri di trovare tutti i drivers.
Non è un caso che l’aereo su cui si avventurò Otto Skorzeny per potersi fregiare dell’impresa di aver liberato il Duce portandolo a Pratica di mare, portava il nome dell’uccello che è della gestante la metafora. Proprio perché l’avventura, per definizione, è sempre gravida.
Di Otto Skorzeny il tempo non ci ha lasciato manco la skorza. E uomini che oggi possono pensare di conquistare Evita Peron non ce ne sono più perché all’avventura hanno sostituito il fitness. Al corpo a corpo, la cura del corpo.

Lo scorrere del canovaccio è intervallato dalle grazie di due ballerini che danzano sulle note di popolari spartiti. Menzione particolare, a questo proposito, alla caviglia “fina” di Raffella Saturni che continua a furriare nella mia testa sulle note magnificamente interminabili del Bolero di Ravel, l’unico pezzo senza il partner Leonardo Bizzarri, virile ma poco teutonico, che chiude il sipario entrando abbigliato da tedesco nel salone dell’albergo per prelevare il Duce.

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