La visita di Papa Francesco a Lampedusa è un fatto importante, simbolicamente forte. L’attenzione del Pontefice si è rivolta alle “periferie della vita”. La sua preghiera si è rivolta agli ultimi, a coloro che sono stati oggetto di violenza e di persecuzione, di speranza tradita dal mare, dove hanno trovato la morte.
L’Omelia di Papa Francesco è un manifesto sociale e politico: di chi è la colpa? Di nessuno e dunque di tutti noi. La posizione espressa dal Papa è in linea con quanto affermato anche nella teologia di Benedetto XVI. Nella sua prima enciclica, Deus Caritas est il Papa scrisse che “dove c’è amore c’è Dio” e che “chi vive nell’amore vive in Dio”. L’amore e la fede, la carità e la speranza sono le virtù teologali, i principi che hanno guidato il pontificato di Benedetto XVI e che oggi, più che mai guidano il pontificato di Papa Francesco.
« Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! »
Questo passaggio dell’omelia è particolarmente forte e ci pone davanti ad un’evidenza: la nostra indifferenza. Abbiamo ormai poca coscienza del significato della “sofferenza” e siamo pronti a condannare senza chiederci mai cosa ha condotto queste persone a Lampedusa. Quali atrocità abbiano dovuto subire per poter trovare una possibilità di salvezza, questo non ci interessa.
Questa indifferenza va di pari passo con l’ipocrisia di molti cristiani, politici e non, che usano la fede solo come un mezzo per i propri fini. La fede è un mezzo per questi uomini, non una condizione di vita.
L’altra domanda che il Papa ci (si) pone è: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?»
Infatti, chi ha pianto? Chi ha sofferto dentro, chi è stato capace di provare “empatia” e di commuoversi? Ma non sono sufficienti la commozione o il pianto. Occorre agire, intervenire per aiutare queste persone che sono sopravvissute al mare e fare di tutto affinché non ci siano nuovi viaggi della speranza che si trasformano in “viaggi di morte”.
Trovo orribile, quanto scritto da Magdi Allam “pensate prima agli italiani”. La sofferenza è sofferenza, e non c’è ordine di priorità. Chi soffre, soffre. Si è perso davvero il senso dell’essere cristiani e lo dico da cattolico di nascita, ma agnosta per scelta.
La giustizia, l’amore per l’altro, il rispetto della sofferenza il bisogno di aiutare sono valori che prescindono l’essere o meno credente, l’essere o meno cristiano. Ma uno che si professa cristiano non può porre la sofferenza di alcuni al di sopra della sofferenza di altri, non può dimostrare un’aridità così profonda e un disprezzo tale per la vita.
Ringraziamo Papa Bergoglio, perché ha voluto testimoniare la sofferenza di queste persone fuggite dal loro Paese per trovare una possibilità di vita migliore e che hanno trovato la morte, sulle nostre coste e che anche da morti subiscono le ingiustizie e le violenze dell’ignoranza e dell’indifferenza, in primis di noi italiani.
Lampedusa è un’isola di solidarietà, malgrado la sofferenza. Un esempio di civilità e di misericordia che manca a molti cristiani.