Venticinque anni fa moriva a Roma Giuseppe Saragat, lo statista che nel 1947 divise, con la scissione di Palazzo Barberini, la sinistra e per questo fu osteggiato e combattuto tanto quanto ammirato da chi ebbe il coraggio di seguirlo. Per l’occasione ospito volentieri questo ‘ricordo’ di Antonio Matasso, della Fondazione socialista antimafia “Carmelo Battaglia”
Saragat ha avuto ragione; eppure il Paese sembra averlo dimenticato, nonostante sia stato il primo Presidente dell’Assemblea Costituente ed un Presidente della Repubblica esemplare, il primo socialista al Quirinale, il secondo fu Sandro Pertini. L’importanza della scissione di Palazzo Barberini forse ancora non è stata percepita da gran parte degli italiani, ma certamente si è trattato di un gesto decisivo per la storia repubblicana. Con quella decisione coraggiosa, Saragat entrava davvero da protagonista, sul serio e a buon diritto, nella storia dell’Italia contemporanea. Egli è stato uno dei padri fondatori della Repubblica, appartenente a quella generazione che costruì l’Italia delle libere istituzioni. Uomo di grande cultura e grande intenditore di libri rari, era capace di leggere in lingua originale Goethe e Marx. Un protagonista che ha inciso un segno profondo nella nostra storia nel momento più pericoloso e decisivo. “Il socialista che sapeva scegliere”, lo definì Domenico Fisichella, intellettuale di valore e certamente assai lontano dal mondo della sinistra. La sua forte coerenza politica e morale gli consentì anche di avere il coraggio dell’impopolarità. Le sue scelte furono subito definitive ed irrinunciabili, con intuizioni al limite della profezia e con una visione della politica che, attraverso la difesa della libertà e della democrazia, doveva realizzare le condizioni materiali della giustizia sociale. Il suo messaggio programmatico (“case, scuole, ospedali”) è un fondamentale riferimento dal momento che ancor oggi sussiste la necessità di difendere la casa così come la scuola pubblica e di battersi per una sanità davvero efficiente. Ma al di là delle questioni programmatiche, la scissione di Palazzo Barberini riguardava soprattutto una diversa dislocazione internazionale. E la posizione di Saragat era identica a quella dei socialisti e socialdemocratici europei, unanimemente concordi verso la scelta di incarnare la sinistra dell’Occidente. Va dato quindi risalto all’opzione europeista della scissione del 1947, dove Saragat fu motivato dalla convinzione che lo “sbocco europeo” fosse l’unica necessaria premessa della conquista della democrazia e del socialismo, ritenendo altresì che l’europeismo dei socialisti riformisti rappresentasse il baluardo contro il dilagare dello stalinismo. I punti fermi dell’impegno politico di tutta la sua vita furono appunto la difesa della democrazia e lo sviluppo, nel suo ambito, della giustizia sociale. Da giovane studioso, laureato in scienze economiche e commerciali e figlio di un avvocato che scriveva su “La Stampa”, strinse amicizia con Piero Gobetti nonché con Croce ed Einaudi, ma riconobbe in Claudio Treves il suo maestro, iscrivendosi nel 1922 al Partito Socialista Unitario fondato da Turati e Matteotti, insieme allo stesso Treves, per impegnarsi nella lotta contro la dittatura. Durante gli anni giovanili a Torino incontrò anche l’operaia tessile Giuseppina Bollani, che divenne poi sua moglie. Nel 1926, dopo l’entrata in vigore delle leggi eccezionali e la revoca del mandato parlamentare ai deputati di tutti i gruppi dell’opposizione, Saragat e Treves passarono il confine con la Svizzera, camminando lungo un sentiero nei pressi del lago di Lugano allora in burrasca.
“È come un prigioniero che volesse liberarsi dalle catene”, disse rivolto al suo più anziano compagno a proposito del vicino specchio d’acqua. E Treves gli rispose: “il lago ha ragione”. Il loro pensiero, come quello di tutti i socialisti democratici, si rivolse al Paese che stavano lasciando, caduto sotto un regime negatore di ogni libertà.
I due esuli si diressero a Zurigo, dividendosi una volta giunti nella città elvetica. Treves proseguì per Parigi, Saragat per Vienna, dove strinse un sodalizio durato vari anni con il leader della socialdemocrazia austriaca Otto Bauer, che arricchirà la sua capacità di intuizione politica.
Lasciata Vienna per Parigi, dove l’amico Léon Blum gli trovò lavoro in una cooperativa,il futuro presidente della Repubblica pubblicò in francese il suo libro “L’umanesimo marxista”(1936), un testo che rivelerà ai socialisti di tutta Europa l’importanza dell’elaborazione dottrinaria saragattiana, condotta sulla lettura nella lingua originaria delle opere di Marx, di cui è rivendicato, in termini di estrema chiarezza, il significato umano contro le arbitrarie e distorte interpretazioni leniniste, nonché contro le aberranti e snaturate applicazioni staliniste. Temi già evidenziati anche nel precedente “Democrazia e marxismo” del 1929.
Durante l’occupazione nazista Saragat si trovò a Roma con Nenni, Buozzi e Pertini. Quest’ultimo, secondo socialista eletto alla presidenza della Repubblica, condivise la sorte del leader di Palazzo Barberini: entrambi furono arrestati e tradotti nel carcere romano di Regina Coeli. Verranno condannati a morte dal tribunale militare tedesco.
Allo scrittore siciliano Ercole Patti, compagno di prigionia che gli confidò il suo terrore di essere fucilato dai tedeschi, Saragat rispose: «E se anche avvenisse? Per due di noi che cadessero, ve ne sarebbero cento altri che prenderebbero il nostro posto per continuare la lotta per la libertà». Un abile stratagemma, un ordine di scarcerazione con firma falsa, predisposto dai socialisti romani (tra cui Giuliano Vassalli), consentì di liberare sette detenuti, tra cui Saragat e Pertini.
Nel 1947, al momento della scissione, il leader del socialismo democratico e futuro capo dello Stato portò con sé, in questa nuova battaglia, la sua visione umanistica del marxismo, la traccia profonda delle convinzioni di Otto Bauer, secondo cui non vi è socialismo senza democrazia, il patrimonio ideale per il quale scelse l’esilio e la lotta contro il totalitarismo. Il Paese gli manifestò un tributo di riconoscenza quando il Parlamento nel 1964 volle eleggerlo alla suprema magistratura repubblicana.
Come un segno fatale e significativo nel ribadire la continuità storica del pensiero socialista riformista, morì venticinque anni fa nello stesso giorno ed alla stessa ora in cui si era spento cinquantacinque anni prima il suo maestro, Claudio Treves.
Ad una parte non trascurabile dell’intellighenzia italiota è piaciuto, negli anni, descrivere la scissione di Palazzo Barberini come un avvenimento voluto dagli americani, non senza aver ostentato la certezza che gli Usa avessero foraggiato Giuseppe Saragat e compagni perché rompessero il fronte della classe operaia. E difatti furono in tanti a mettere in relazione il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, la scissione di Saragat e la cacciata dei comunisti e dei socialisti di Nenni dal governo di unità nazionale, costituito dai partiti della Resistenza.
Solo un personaggio come Enzo Zavaroni, una vera e propria istituzione del socialismo democratico italiano, avrebbe potuto sbugiardare questo tentativo mitopoietico. In Francia, durante il fascismo, egli aveva sposato la figlia di un deputato socialista, anch’egli esule con la famiglia, ed era stato coordinatore organizzativo di molte iniziative parigine contro il regime mussoliniano. Aveva seguito Saragat nel PSLI ed era lui, in sostanza, tutto l’apparato del partito. Zavaroni ricordava i primi mesi della scissione dicendo: «altro che dollari americani, non avevamo neppure i soldi per comprare una macchina da scrivere». L’unica cosa vera di quelle che Zavaroni riteneva fossero autentiche bugie di quegli anni, tuttavia dure a morire, rimaneva l’accredito politico che un paio di sindacalisti italo-americani, conosciuti dal siciliano Giuseppe Lupis durante il suo esilio negli Stati Uniti, avevano fatto del nuovo partito alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato, garantendone l’affidabilità in una strategia comune del mondo libero, nel contrasto al totalitarismo e nella salvaguardia di una linea interna all’Italia che mirava a realizzare l’unità socialista nella democrazia.
Sarebbe sbagliato descrivere la nascita del PSLI saragattiano, che riprese la denominazione assunta dai socialisti italiani tra il 1893 ed il 1895, come la nostra Bad Godesberg: quando nel 1959 i socialisti democratici tedeschi misero in soffitta buona parte della lezione di Karl Marx, la cosa a Saragat non piacque per niente. Anche perché l’allora presidente della Repubblica era tra i pochissimi leader della sinistra ad avere letto pressoché tutto del filosofo di Treviri, che considerava un pensatore democratico e libertario, la cui analisi era stata tradita e deformata dall’eresia leninista. È invece doveroso chiedersi se i socialisti italiani sapevano, alla vigilia di Palazzo Barberini, che cosa stesse allora maturando nel mondo comunista.
Saragat e gli altri leader socialisti europei, tramite i laburisti britannici che erano al governo, sapevano perfettamente tutto. La vera anomalia in Europa occidentale era ritenuta la decisione, più subita dall’esterno che liberamente adottata, della maggioranza dell’allora PSIUP. Un partito legatosi nel primo decennio del Dopoguerra al PCI e vittima delle direttive di Mosca, impartite direttamente o attraverso Botteghe Oscure. Per questo i sovietici avevano disposto che i socialisti avessero una quota annuale di finanziamento come il PCI, un sostegno economico che si protrasse fino al 1957, per poi passare alla sola corrente “carrista” di Tullio Vecchietti e Dario Valori. Al PSIUP, che a gennaio del 1947 riprese a chiamarsi Partito Socialista Italiano (per impedire a Saragat di utilizzare il nome storico), vennero prestati anche uomini del PCI, i quali, come risulta da documentazione presente negli archivi ex sovietici, furono iscritti alle sezioni socialiste per consentire a Nenni di riprendere il controllo del partito nel congresso del 1949, dove i fermenti autonomisti crescevano, nonostante la fuoriuscita del gruppo di Saragat.
Questa linea costò al PSI l’espulsione dall’Internazionale Socialista, decisa nel maggio del 1949, durante la conferenza svoltasi a Baarn, in Olanda, dopo che era stato respinto l’appello dei socialisti europei rivolto a Nenni e Morandi, affinché si unissero a Saragat.
Relativamente al percorso accidentato che riportò tutto il socialismo italiano dentro l’Internazionale, Saragat ebbe anche il merito, con la scissione, di dare la stura a fecondi dibattiti tra i socialisti rimasti nel PSI, che ricominciarono a confrontarsi, anche in modo acceso.
Nel venticinquesimo anniversario della sua morte, l’ho ricordato, in occasione del Primo Maggio, attraverso queste sue parole, pronunciate in relazione al nuovo soggetto politico dei socialisti italiani da lui costituito: «Al partito non ci sono aderenti maggiori né minori. Ci sono solo dei compagni. E quelli a noi più cari sono gli operai, i braccianti e gli impiegati».
Chi, come il fondatore del PSLI (poi PSDI), ha vissuto nel dopoguerra il dramma dell’autonomia del socialismo e della necessità, in un Paese sostanzialmente arretrato nella struttura e nel costume, di una forza autenticamente riformista del mondo del lavoro, capace di rimuovere mediante spinte innovative incrostazioni secolari, doveva essere consapevole di quanto sia angoscioso avere la visione chiara dei problemi del Paese ed essere impossibilitati ad affrontarli e a risolverli, per le note anomalie italiche. È stato questo il dramma di Saragat, che con consapevolezza ha fatto da apripista a sinistra: un dramma poi condiviso anche da chi divenne autonomista dopo di lui, come Nenni e Craxi.
Antonio Matasso