Nel nostro Paese, essere “figli di nessuno” è una cosa tutto sommato normale; ma esserlo avendo talento è un dramma. Vi spiego il perché.
I talentuosi figli di nessuno conquistano il rispetto di chi li giudica tra i banchi di scuola, dalle superiori sino talora all’università, per la brillantezza delle idee e la consistenza dei propri studi. Perché quel rispetto non ha nessun costo: nel migliore dei casi, si traduce in un titolo di studio.
Ma, come in una parabola discendente, questi “figli di nessuno” incontrano grosse difficoltà quando erano sicuri fossero finite: al momento della laurea, che ritenevano invece fosse il traguardo decisivo per il salto nella scala sociale che avevano fatto.
Perché non erano abituati a vedere in casa la laurea dei genitori in cornici in radica. Piuttosto, avevano sempre visto rientrare il padre con le mani sporche della polvere da lavoro, o al massimo dell’inchiostro degli uffici bassi degli edifici pubblici.
Da lì a poco tempo, questi “talenti” si rendono infatti conto che mettere a frutto il proprio talento è un’operazione difficilissima, in assenza di giusti endorsement parentali. Ed anzi, che lo stesso talento potrebbe essere la loro condanna in un Paese, dove ai comuni cittadini è fatto obbligo di essere drammaticamente standard per raggiungere una poco brillante posizione sociale.
Ad esempio, per diventare professionisti, ai comuni cittadini è fatto obbligo di studiare per lunghi anni, in un vortice di specializzazioni e master, di superare concorsi o esami di abilitazione “farsa” e, nei casi i più fortunati, di attaccarsi alle ghette di qualche “superiore referente”.
Diventati professionisti, agli stessi comuni cittadini è fatto poi obbligo di svolgere giorno dopo giorno il proprio ordinario lavoro senza farsi notare e, giunti a cinquant’anni, di sentirsi soddisfatti per essersi tenuti a galla in tutti gli anni precedenti.
Ed allora, a questi talentuosi “figli di nessuno”, iniziano a riecheggiare in mente le parole di chi a gran voce invita da tempo i “cervelli” ad espatriare. Ma, allo stesso tempo, sono assaliti dal timore di non riuscire neanche all’estero in un periodo in cui la disoccupazione globale è in aumento; e per questa via di gettare a mare i sacrifici fatti, le rinunce forzate di tutta la famiglia.
E così, i talentuosi figli di nessuno con più coraggio espatriano. Tutti gli altri restano pagando la pena di vivere in un Paese drammaticamente standard, che sterilizza il talento sino ad assassinarlo, chiedendosi se non fosse stato meglio nascere senza talento.
Poi i giornali si chiedono perché nel nostro Paese non ci sono talenti.