Secondo il Financial Times di oggi ci sono due versioni, quasi diametralmente opposte, nella valutazione degli effetti della crisi Snowden-Nsa.
Per Mark Anderson, editorialista del giornale londinese, la crisi nei rapporti tra America ed Europa rischia di “oscurare” quello che è il vero rischio del cyber-crimine, ovvero il furto della proprietà intellettuale da parte della Cina.
Secondo un recentissimo studio del Center for strategic and international studies (Csis), l’incidenza del fenomeno del cyber-crimine è pari allo 0,4-1,4% del Pil globale, in una forchetta cioè tra i 300 miliardi e il trilione di dollari. Gli Usa sono l’epicentro di questo attacco, che si configura come una vera e propria erosione di quote e relativo potere di mercato, per un costo stimato di 24-120 miliardi di dollari (0,2-0,8% del Pil Usa).
Anderson ricorda come lo spionaggio industriale non sia un fenomeno secondario, né recente. Il Giappone negli anni ’70 riuscì a trasferire segreti commerciali relativi a quattro tecnologie di punta americane, spiazzandole completamente e riuscendo successivamente a dominare i segmenti “rubati”. Successivamente, la Corea del Sud è riuscita a fare lo stesso ai danni di Tokyo. E ora tocca a Pechino, ultima nella sequenza delle potenze info-mercantiliste, la cui azione avrebbe già mietuto vittime tra i produttori di telefonia mobile Nortel e Motorola.
Ma un ben più fosco e critico commento è riservato al post-Snowden da James Fontanella-Khan, che sempre sul Financial Times raccoglie le confidenze e l’esasperazione reciproca dei funzionari americani ed europei. Molti degli argomenti girano attorno al fronte ideologico della contrapposizione privacy/sicurezza, sull’improvviso raffreddamento tra le istituzioni di Bruxelles e di Washington e sull’indignazione contro il programma “Prism” agitato su vari fronti pre-elettorali, a Strasburgo (dove si voterà nel 2014) e in Germania (dove Angela Merkel non si è sottratta certo alla polemica transatlantica).
Punti di vista molto diversi dentro uno stesso, autorevole, quotidiano. Chi ha ragione?
Il ciclo politico europeo sicuramente incide nell’acutizzare il problema, in vista delle elezioni a Strasburgo del 2014. Certamente un altro elemento importante è lo sfasamento tra istituzioni nazionali (americane) e sovranazionali (europee), dove Washington ha difficoltà a capire perché dovrebbe rivolgersi non solo alle singole capitali, ma anche a Bruxelles. Un problema comprensibile in termini di dinamica imperiale: una più matura e avanzata, che ha una propria architettura egemonica (rispetto alla quale naturalmente Cina, Europa, India, Russia, Giappone pari sono: concorrenti economici, commerciali e potenzialmente strategici); l’altra ancora in costruzione, su un difficile equilibrio tra i sei principali Stati nazionali (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna) con le loro sensibilità, e i più piccoli che devono essere rappresentati, se non altro come bandiera, all’interno delle istituzioni comuni.
E forse il caso-Snowden serve proprio a questo: a far sì che queste ultime si facciano un po’ di “muscoli” non tanto verso Washington, ma verso le singole cancellerie nazionali: il tema che resta sullo sfondo è quello, appena abbozzato e mai seriamente affrontato, di un’intelligence europea.
IMMAGINE: JOEP BERTRAMS