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Vi svelo l’antiberlusconismo parolaio

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione dell’autore il commento di Massimo Mucchetti uscito oggi sul quotidiano l’Unità, diretto da Claudio Sardo

Il “Fatto” apre l’edizione di ieri con un titolone sdegnato: “Una legge del Pd salva Berlusconi“. La legge è il disegno di legge sulle incompatibilità d’affari che ho presentato con Luigi Zanda, Valeria Fedeli e altri senatori.

Incredibile, solo che si leggano le fiammeggianti reazioni di tanti esponenti del Pdl. Eppure, il direttore del “Fatto”, Antonio Padellaro, è un giornalista di alto rango. Lo dico senza nemmeno fare riferimento al suo pur eccellente curriculum. Mi basta la conoscenza diretta che ne ho potuto avere all'”Espresso”, dove abbiamo lavorato entrambi sotto la guida straordinaria di Claudio Rinaldi. Come può un giornalista di alto rango autorizzare un titolo di così? Può, può. Da quando l’antiberlusconismo è diventato un genere letterario praticato da professionisti. Sia chiaro, trattasi di professione legittima e in taluni casi anche assai redditizia. Ma come tale va anche soppesata sia sul piano editoriale ed economico sia sul piano più squisitamente politico.

Sul piano editoriale, l’antiberlusconismo H24 non può ridurre la tensione. Perderebbe, se lo facesse, l’oggetto sociale. Silvio Berlusconi è diventato il totem attorno al quale organizzare un pensiero negativo e il suo tabù. Ineleggibile, ineleggibile, c’è solo da applicare l’articolo 10 della legge 361 del 1957: questo è il messaggio che dà per scontato ciò che scontato non è, ossia che quella vecchia norma possa essere univocamente interpretata in quel modo. Ma l’ossessiva ripetizione del messaggio – tecnica tipicamente berlusconiana – crea una “verità” che ha solo bisogno di essere servita.

Pertanto, la discussione politica e la verifica del diritto sono sostituite dall’aritmetica parlamentare: la somma di Pd, Sel e M5S darebbe la maggioranza necessaria per abbattere il totem anche al Senato. E tanto basta. Anche perché in tal modo si abbatterebbe il totem senza violare il tabù che impedisce di guardare a noi stessi e a come per vent’anni Berlusconi sia stato non solo l’avversario ma anche l’alibi principale del centro-sinistra, nelle sue versioni moderate e radicali, socialdemocratiche e liberiste, giustizialiste e garantiste.

Berlusconi rappresenta un modello di vita, di economia e di politica che non va bene a molti italiani. Quorum ego. Da questa larga parte dell’opinione pubblica si può estrarre una nicchia di mercato per la tv e la stampa che professino l’antiberlusconismo come religione. Una nicchia da coltivare e conservare evitando a chi la forma l’angoscia del dubbio e la fatica dell’approfondimento.

Che cosa rimarrà, sul piano dell’economia, di questo segmento dell’opinione pubblica dopo Berlusconi è difficile dire. Per ora c’è, rende qualcosa alle aziende e parecchio alle star, meglio se televisive, dell’antiberlusconismo come professione. Ma sull’industria dell’informazione gli effetti
dell’antiberlusconismo sono ben più vasti. Questa cieca milizia ha consentito agli editori della carta stampata di mascherare i propri limiti e al partito trasversale della Rai di cristallizzare potere, clientele e prebende.

Nel 2000, direttore Giulio Anselmi, prospettai sull'”Espresso” la privatizzazione della parte commerciale della Rai. “Vendetela finché siete in tempo”, fu il titolo di copertina. Ma l’editore fermò la campagna giornalistica che ne poteva derivare su sollecitazione dell’Usigrai e per un timore più domestico: non avendo i mezzi necessari per l’acquisto della parte privatizzabile della Rai, e non volendo lanciare un aumento di capitale che avrebbe diluito la Cir, il management temeva che tutto finisse poi in mano alla RCS allora guidata da Cesare Romiti.

La beffa fu che il “Corriere” fece campagna per la privatizzazione della Rai soltanto durante la direzione breve di Stefano Folli. Poi, con Paolo Mieli, se ne dimenticò. E si che Romano Prodi, da candidato del centro-sinistra quell’idea se l’era pure intestata. Perché non lo incalzarono da premier? Eppure, la vera minaccia per il primato di Mediaset non sono mai stati i referendum veltroniani contro gli spot né le filippiche di tanti miei amici di “Repubblica”.

La vera minaccia è stata per vent’anni la privatizzazione della Rai commerciale e il conseguente abbattimento dei limiti all’affollamento pubblicitario oggi favorevoli a Mediaset. Ma una Rai privatizzata come public company sarebbe stata un’editrice pura che avrebbe messo in imbarazzo tutti. Meglio fermarsi all’antiberlusconismo verbale che ha ottenuto il suo trionfo con la celebrazione di Berlusconi officiata dai pur bravi Santoro e Travaglio a Servizio Pubblico, dove il Caimano si mangiò in insalata i suoi critici radicaleggianti e questi, per non ammettere la sconfitta, si trasformarono da giornalisti militanti quali legittimamente sono in giornalisti mercanti, votati alla sola audience, come Gabibbi qualsiasi.

D’altra parte, l’antiberlusconismo professionale appaga sul piano estetico – e non senza ragioni – un pubblico trasversale ai campi della politica mentre solleva una costante emergenza democratica. L’antifascismo fu il supporto ideale e politico che consentì al Pci di restare importante e mai del tutto isolato, nonostante si collocasse spesso dalla parte sbagliata nelle grandi scelte di politica economica e di politica estera (il contrasto dell’inflazione nel dopoguerra, la Nato, il MEC, la CED, l’Ungheria, gli euro missili…). L’antiberlusconismo della costante emergenza democratica lascia impregiudicata la scelta tra liberismo e socialdemocrazia, tra rigore e sviluppo, tra welfare pubblico e finanziarizzazione delle politiche sociali, tra mercatismo e politica industriale.

Si fa serenamente strumento dei rigori ambientalisti che favoriscono le nuove rendite e s’iscrivono nel disegno anglosassone di deindustrializzare l’Europa per farne un mero centro finanziario. Questa è la vera emergenza democratica, altro che le pur gravi bizze di un uomo solo e ormai anziani. Pertanto, l’antiberlusconismo emergenziale non sente nemmeno l’obbligo di revisionare sé medesimo come invece sentì, non di rado in modo sofferto e drammatico, il vecchio Pci. Non avendo fatto le scelte che contano nella vita di un popolo per non ridurre la sua nicchia di mercato (nell’editoria come nella politica), l’antiberlusconismo professionale rinvia tutto al giorno della palingenesi, mentre campa, sovente bene, in una rumorosa ininfluenza riformista.


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