La passione ed i sentimenti ad essa connessi sono più della fredda ragione ed del relativo calcolo il viatico per “vedere” e denunciare senza mezzi termini “la malattia” di cui soffre la politica, e quindi la sinistra stessa: perdere l’umano, il rapporto con le persone, amici ed elettori, quando si imbocca la strada del potere. Malattia magnificamente analizzata da William Shakespeare nel suo Enrico IV con i dialoghi tra il principino, aspirante al trono, Enrico ed il ‘barbone’ Falstaff, frequentatore assiduo di osterie e gente umile, un sovversivo che ‘smacchia’ l’ordine costituito, rifiutando le grandi parole e le grandi azioni. Il principino lo avvicina, lo segue, ma lo molla perché lui ha altro per la testa ed al potere non vuole rinunciare. “[…] Non ti conosco, vecchio. […] Per molto tempo ho sognato di un tipo come te, cosi’ ingrassato dalla gozzoviglia, così vecchio, così profano! Ma ora che mi sono risvegliato, disprezzo quel mio sogno”. Dal teatro alla realtà il passo è breve.
Così il sociologo Marco Revelli, un figlio d’arte, il padre Nuto fu dei più attivi protagonisti di Giustizia e Libertà, per aver preso e fatto sua l’intransigenza e la radicalità che caratterizzò quel nucleo di intellettuali eretici torinesi che con Antonio Gramsci e Piero Gobetti, videro, denunciandola, la violenza del fascismo e del comunismo realizzato nell’Urss staliniana, afferma: “[…] bisogna uscire dall’involucro, bisogna rompere la bolla in cui si è cacciata la politica: una costellazione di oligarchie in cui si diventa oligarchi alla velocità della luce”. Denuncia spietata: “bisogna sentire lo scandalo delle diseguaglianze” dice a Repubblica, che non permette compromessi di sorta: “[…] nel momento in cui vieni eletto in Parlamento diventi altro da te. Ho visto persone cambiare, nello sguardo, nel linguaggio, nel modo di vestire. L’ho visto in quasi tutti, senza eccezioni: se si vuole ripartire, la sinistra deve spezzare quest’involucro”. Non a caso, la politica era il mezzo per “fare qualcosa per milioni di persone” secondo lo stile di gente contaminata da Giustizia e Libertà, come Riccardo Lombardi o Bruno Trentin, come Noberto Bobbio o Vittorio Foa.
Oggi c’è il governo delle “larghe intese” di Enrico Letta, cavallo di razza della defunta Dc. Sentimenti forti usa Revelli: “amarezza, vergogna, stupore, indignazione per il disprezzo del voto di tutti gli italiani”. Nel suo ultimo libro “Finale di partito” aveva messo il dito nella piaga con la preveggente tesi della fine dei grandi partiti del Novecento, ed in particolare delle due Chiese: quella cattolica e quella comunista. Il 2 maggio scorso il suo atto d’accusa era rimbalzato nel teatro stracolmo dell’Eliseo di Roma, dove il settimanale Left aveva organizzato l’incontro La rivoluzione della dignità con Stefano Rodotà e Sergio Cofferati tra gli altri. Lo Stato di diritto, quello voluto dai “padri costituenti”, nei fatti – è la tesi di Revelli – “è stato abrogato ed è difficile poter parlare ancora di democrazia parlamentare vista l’opera l’eclatante di autoesclusione del Parlamento di fronte al disprezzo della volontà popolare”. E tutto è finito nelle mani di Giorgio Napolitano, “il ‘Presidente-Re“, chiosa il sociologo. Napolitano, dopo aver smentito il settennato bis – “La decisione è automatica, quando sono finiti i sette anni bisogna procedere all’elezione di un nuovo presidente […] I padri costituenti concepirono il ruolo del presidente sulla misura dei sette anni. Non è un caso che nessuno nella storia repubblicana abbia avuto un secondo mandato” – è stato richiamato in fretta e in furia ed è ri-tornato sul Colle. “Certo che bisognerebbe fare un monumento ai 101 soldati di ventura? Traditori della Patria? Professionisti della Politica? Costoro hanno spianato la strada all’amaro, vergognoso, “finale di Repubblica” che altri non è se non l’effetto del “pilota automatico” evocato da Mario Draghi: ossia il voto degli italiani è irrilevante!”, conclude con amarezza Revelli assicurando che “la sinistra c’è ancora nel Paese” e si esprime o in settimanali all’avanguardia come Left o in movimenti variegati e sparsi nei territori.
E dulcis in fundo: a smacchiare il giaguaro Silvio Berlusconi non è stata, come avrebbe dovuto, la Politica, impotente e pavida ad impedire la frode fiscale, ma la Magistratura che al cospetto della prima appare virile e coraggiosa anche se di un’opera di aggiustamento necessita, come si evince dalle parole del Presidente della Repubblica.