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Me ne stavo in auto sulla Via Dell’Arno, in coda, quando mi soffermai su i “carti appizzati”. Per la verità è esercizio che faccio sempre, quello di soffermarmi sui manifesti che annunziano l’epilogo dei nostri simili, quando torno dopo tanto tempo al paese del quale sono latitante. Mi colpì subito il nome che non avevo mai sentito né conosciuto: “Albanese Leonardo”. Come spesso accade, la mente, che legge prima degli occhi, collegò subito, con la velocità che è quella del cosmo, quel nome che sulla prima non diceva nulla, alla persona cara. A Dino.
Dino, lui che fu uno dei tanti nodi con cui, come ognuno, mi sono attorcigliato alla vita. Legato, senza incattivirmi. Pronto a poterlo sciogliere con la semplicità dei modi e dei gesti che è poi quell’ intruglio di leggerezza e delicatezza che fa di una vita, una vita spesa bene.
Dino mi crebbe, aiutandomi a percorrere un lungo e importante tratto della mia vita, che fu salita, dandomi, senza remore, un pezzo della sua sensibilità delicata e leggera.
Era di Piana degli Albanesi, classe 52. Vinse, giovane, il concorso nella Ferrovia – qui Trenitalia nessuno sa cos’è – e fu destinato dopo un certo tempo alla Stazione di Pozzallo, stazione nel senso di Via Crucis per i passeggeri che da Siracusa volevano raggiungere, su rotaia, Ragusa.
E fu proprio alla Stazione di Pozzallo che ci incrociammo alla fine degli anni 80. Lui trentenne, io che avevo poco più di dieci anni. Quell’estate, iniziai ad andare alla stazione ogni pomeriggio, prestissimo quando il sole mi scavava solchi sulla pelle, per essere in tempo per il Roma – Ragusa che arrivava alle 13.50. Quello era il treno, con tanto di motrice e carrozze che la notte prima avevano riflesso le luci della capitale. Nulla a che vedere con le littorine.
Andavo e venivo dalla salita della stazione un giorno dopo l’altro allungando, ogni giorno, la mia permanenza. Ero rapito dall’odore del porfido che alla sera si legava a quello di gelsomino di cui la stazione era piena. Dalla campanella che annunziava l’arrivo del treno. Dalla ritualità che regolava le azioni dei macchinisti e del personale di terra, in particolare quella del capostazione che con il suo berretto rosso ben calzato e la bandiera verde dava il segnale di via libera congedando il treno e le speranze dei ritardatari. Ciuff Ciuff.
E fu così che un pomeriggio, Dino, vedendomi là, prese e disse: – come ti chiami? – Michele – risposi prontamente. E lui : – Vieni con me che andiamo a manovrare lo scambio. Erano le 15.11, e da Ispica, stazione che precede quella di Pozzallo venendo da Siracusa, era arrivata la telefonata dei colleghi che annunziava la partenza della littorina che sarebbe giunta a Pozzallo dopo circa 9 minuti. Nel contempo, alle 15.18 arrivava a Pozzallo anche la littorina da Sampieri, stazione che precede quella di Pozzallo venendo da Ragusa. Pozzallo era stazione sede dell’incrocio, essendo che la linea, ancora oggi, è a un solo binario. Sic!
Dino aveva in mano le chiavi: 3, 11 e 12. Le prime due servivano per aprire lo scambio, così si diceva in gergo. Una volta fatto ruotare la pesante leva che doveva ruotare di 180 gradi, con la 12, dall’altra parte del binario andava bloccato lo scambio. Questo avrebbe permesso di far entrare la littorina proveniente da Ispica sul primo binario quando quella proveniente da Sampieri sarebbe stata, già ferma da pochi minuti, sul binario 2. Quello normalmente utilizzato in quanto quello perfettamente allineato alla linea Siracusa – Gela.
Fu così che nacque la nostra amicizia. Dopo poco tempo, se non fosse stato per la ritirata a casa per pranzo e cena, le mie giornate le avrei trascorse alla stazione, seguendo rigorosamente i turni di Dino. Mattina e pomeriggio. Con il passare dei giorni, avevo rapidamente memorizzato orari e i numeri dei treni. E col tempo, anche i suoi colleghi mi avevano preso in simpatia al punto che nel riflesso dei loro occhiali mi vedevo con l’uniforme da ferroviere. Quando tra le 13.50 e le 15.11, in stazione non si attendevano né treni, né littorine, Dino rimetteva ordine nella contabilità della biglietteria e sistemava i tagliandi di viaggio. Erano dei cartoncini, tutti di diverso colore, in funzione del chilometraggio che venivano intestati alle diverse destinazioni. Oltre a esaurire tutte le mie curiosità su ogni aspetto della gestione della stazione, Dino mi raccontava della sua vita. Della sua voglia di farsi una famiglia. Del suo saper farsi bastare poco. Quel poco che faceva armonia.
Era uomo gentile Dino. Disponibile con i colleghi se si trattava di sostituirli, a volte per un turno di notte.
A Settembre, quando assieme alla bella stagione finirono anche le vacanze estive, Dino si accorse del mio umore mutato. Afflitto com’ero dalla prospettiva della scuola e dei compiti che mi avrebbero impedito di frequentare la stazione come avevo fatto fino a quel momento. E così mi fece un regalo. Mi organizzò un viaggio sul merci delle 22 da Pozzallo a Ispica sulla motrice Diesel, al comando di quello stesso tipo di motrice che tirava il Roma – Ragusa. Anche grazie all’ambasciata di Dino, mi fu concessa questa uscita fuori orario e alle 21.30, eccitatissimo, stavo sul marciapiede, al secondo binario dove, come un addetto delle Ferrovie avevo l’appuntamento apparecchiato con i colleghi di una sera. Altro che trenini telecomandati. Altro che plastici, anche quelli magnifici della Lima, quelli con tanto di stazioni in scala, passaggi a livello automatizzati e scenografie che giuntavano città e montagne. E manco il treno di Harry Potter avrebbe potuto competere con quella magia. Perché non c’è fiaba più bella di quella in cui la fiaba, appunto, si incrociava con la realtà facendosi cosa vera, la prima al primo e la seconda al secondo binario. Quando l’immaginazione odorava di porfido e di gelsomino. Quando Dino per svelarmi la realtà dietro al sogno di bambino, subito prima di salire, mi diede una pacca sulla spalla e sotto voce, con la sua strascicata palermitana, mi disse: – Se ti chiede qualcosa dicci che sei mio cugino -.
Finì il tempo della Ferrovia, chiusa fu la stazione che oggi è rudere pronto e apparecchiato, come il Paradiso di Tornatore, per le ruspe. E la dolcezza di Dino che dalla stazione fu mandato a far guardia a solo una piccolissima luce di un unico e solo segnale al casello vicino a Villa Grimaldi, gli finì nel sangue. In malattia, quella che, prima di portarselo via, gli portò via la vista di quella unica lucina del casello. Ciuff Ciuff.

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