A sei settimane dalle elezioni tedesche è doveroso chiedersi se è davvero “Arrivederci Europa”, come molti temono e altrettanti (più o meno segretamente) sperano. L’esito delle votazioni a Berlino infatti dirà se l’era Merkel è finita oppure se si andrà verso un bis, necessariamente riveduto e corretto. Ma la leadership riluttante (e comunque contestata) di Berlino è solo l’espressione particolare di un problema più ampio. In assenza di un accordo fondamentale e rispettoso degli interessi almeno di Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, l’unico esito possibile è la lenta disgregazione di una ormai sfuggente “potenza europea” in un mondo dominato da rivali continentali che hanno da tempo il vantaggio della sovranità nella sua forma classica statale.
Disuniti, quindi disarmati
Bisogna partire dal riconoscimento, secondo Antonio Villafranca dell’Ispi, “che la diversità/divergenza all’interno dell’eurozona” più che una ricchezza, “è un insopportabile elemento di disunità”. E nonostante qualche segnale di ripresa, il tema sempre attuale della crisi economica costringe a un certo immobilismo, anche sull’onda dei cicli emotivi, elettorali e mediatici. Ecco perché la questione dell’integrazione delle forze armate europee non viene percepita come prioritaria: ma non è detto che debba essere sempre così. Ne è convinto, nonostante le difficoltà, Alessandro Politi della Nato defence college foundation, che sottolinea il costo di 28 difese nazionali non integrate, spesso sovrapposte, rese cieche da interessi parziali. È quanto riscontra, dall’interno della macchina militare, l’ex capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini, per il quale “di fatto non abbiamo più capacità militari indipendenti”, eppure “le industrie della difesa dei singoli Paesi europei si consumano in una guerra intestina” senza sbocchi globali.
Difesa Ue? L’Italia ci crede
Roberta Pinotti, sottosegretario alla difesa, punta sul Consiglio europeo di dicembre per dare un forte contributo italiano all’integrazione militare dell’Unione. Per il presidente della Commissione difesa del Senato Nicola Latorre, l’Italia può essere “cerniera strategica” tra un’Europa militare che parte da cooperazioni rafforzate con Parigi, Londra e Berlino, gli Stati Uniti e importanti “partner extra-europei, nonché stakeholder della sicurezza regionale” come Russia e Israele. Spetta al capo di Stato maggiore ammiraglio Luigi Binelli Mantelli sottolineare l’importanza del fronte mediterraneo per costruire l’Europa della difesa. Un’area densa di sfide e minacce che richiedono capacità di sorveglianza e intelligence sofisticate, in parte espresse dagli Usa, ma sempre più da sviluppare a partire da una base industriale locale avanzata. Un asset che certo non manca all’Italia.
Geometrie innovative
In questo quadro, come valutare il riequilibrio dei pesi militari tra le potenze europee (non solo tra Ue e Usa) proposto da Alexander Vershbow, vicesegretario della Nato? È un’idea che può servire gli interessi italiani: collegandosi a quelli industriali tedeschi e americani, Roma può bilanciare un’Europa della difesa troppo franco-britannica. E dentro questo schema, maturare una propria efficace proiezione meridionale.
Industria, croce e delizia della potenza italiana
Perché le ambizioni strategico-militari nazionali si realizzino, è necessario dunque ripartire dal patrimonio industriale. Se per Latorre le politiche industriali “non possono essere mai disgiunte dalla politica estera e della sicurezza”, per il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci è innegabile che “la doppia recessione economica sta mettendo a rischio una parte nevralgica della base industriale italiana”. Come evitare questo pericolo? Nello speciale economia, Formiche parte dal cuore della forza manifatturiera attuale e futura di ogni Paese, la ricerca. Partendo da un fatto: in questi anni di crisi si è verificato un altro piccolo miracolo economico italiano, l’espansione di alcune centinaia di medi gruppi industriali sui mercati esteri. La domanda è: come preservare questo nucleo e costruire attorno ad esso una politica ambiziosa?
Ricerca, dal disordine all’ordine (creativo)
Renato Ugo, chimico di fama e presidente di Airi (Associazione italiana per la ricerca industriale) invoca sostegni mirati alla ricerca e innovazione nell’industria, per ripartire dalle fabbriche del futuro. Per il presidente del Cnr Luigi Nicolais gli elementi di forza devono essere i centri di ricerca, pensati come snodo del rapporto innovazione-mercato sul territorio. Ai “cluster” di Pmi avanzate pensa anche Adriano De Maio, presidente di Area science park di Trieste. Insieme al sottosegretario al Miur Gian Luca Galletti e al Presidente del Consorzio Roma Ricerche (Crr) Fabio De Furia, indicano la necessità di un governo pubblico più attivo e favorevole allo sviluppo dei processi tecnologici, a partire da progetti concreti quali quelli ricompresi in Horizon 2020, il programma quadro della Ue in materia di ricerca. In fondo, per l’Italia non si tratta di inventare nulla di nuovo. Basta guardare a quel connubio virtuoso tra Giulio Natta e la Montedison nella chimica del dopoguerra. Ce lo ricorda Italo Pasquon, allievo del premio Nobel. E ce lo ricorda, con la passione di chi lavora su una frontiera difficile e spesso trascurata Barbara Stella, vincitrice dell’European inventor award 2012.