Per quanto il presidente Obama affermi il contrario, l’intervento che si profila in queste ore avrà scopi politici precisi, collocandosi come azione di regolazione della bilancia di potenza regionale.
Anche Desert Fox, l’azione di bombardamento condotta nel dicembre 1998 dalle forze navali americane nel Golfo contro alcuni asset militari del regime irakeno, aveva le caratteristiche esteriori di una “sanzione esterna” di polizia globale per la scarsa collaborazione di Saddam con le Nazioni Unite sul dossier delle armi chimiche. Eppure anche in quel caso l’obiettivo non era una generica punizione ma l’indebolimento di una potenza con aspirazioni egemoniche che in effetti, attraverso una pressione culminata nell’intervento del 2003, è stata per lungo tempo esclusa dalle equazioni militari dell’area.
Nel caso dell’estate 2013 si tratterà evidentemente per Washington di rinsaldare il legame mediterraneo con le potenze sunnite come Arabia Saudita, Qatar, Emirati e Turchia. Questo sottofondo della politica obamiana verrà dunque confermato, al tempo stesso richiamando all’ordine in particolare le petromonarchie che hanno alimentato un’anarchica competizione tra filiere islamiste-radicali. Nella bilancia da assestare rientra anche un calcolo (tutto teorico, per il momento) favorevole a Israele, dato che Tel Aviv teme per le minacce missilistiche sempre più penetranti che le vengono dal quadrante siriano-libanese, a causa principalmente (ma non solo) delle forniture militari e dell’influenza iraniana.
Missili e bombe apparentemente “random” e “impolitiche” delle forze aeronavali Usa, nel caso siriano saranno (quando e se cadranno) un preciso messaggio alla coalizione di forze che ha promosso le Primavere Arabe nel 2011, in particolare rilanciando lo status regionale di Turchia e Giordania come Stati-modello in grado di fornire gli strumenti politico-istituzionali per realizzare forme di democrazia minime. L’obiettivo strategico è di impedire che le fisiologiche lotte tra fazioni dell’elite siriana in futuro si giochino a colpi di provocazioni chimiche e massacri. Al tempo stesso potranno fornire una base per una ritrovata sintonia con Israele, con cui Obama da tempo cerca punti di contatto più concreti.
Secondo un report del Center for Strategic and International Studies del 29 agosto scorso, un mancato intervento militare americano a questo punto “influenzerà le importazioni indirette di petrolio degli Stati Uniti, nella forma di importazione di beni da Asia ed Europa, aree molto più dipendenti dalle forniture petrolifere di quanto non lo siamo noi”. Anche nell’era della graduale e quasi completa indipendenza energetica americana, il Golfo continua ad essere importante, dunque. In questo quadro, la Russia non è l’avversario da escludere, ma la potenza la cui ombra pesa e peserà anche in futuro. Strategicamente parlando, Mosca può far valere (e ha tutto i mezzi per farlo) il suo essere cuneo tra Cina ed Africa in un’area in cui l’Europa è ancora troppo debole per essere partner militare affidabile per Washington.
Viene in mente che esattamente dieci anni fa questi temi erano già presenti nell’agenda italiana. Al vertice della Maddalena dell’agosto 2003 fu il premier Berlusconi a parlare dell’alleanza con la Russia e della sua integrazione europea in termini militari. Ma allora si preferì eclissare il tutto, anche perché né Francia, né Gran Bretagna, né Germania avevano alcun interesse a farsi eclissare nel mercato militare interno. Appunto, i “tre grandi” d’Europa che ora appaiono così piccoli.