A Palazzo Chigi non si mangia particolarmente bene, dicono. L’incontro di oggi fra i vertici Fiat e il presidente del Consiglio non era certo organizzato per gustare le prelibatezze del catering governativo. Nel menù c’erano ben altre e più importanti questioni.
Anzitutto, la necessità di vedersi, di dare il segnale fisico del dialogo fra il governo e la simbolicamente più importante azienda italiana. Era toccato a Marchionne nelle ultime settimane, se non negli ultimi mesi, indossare i panni del poliziotto cattivo, quello che denuncia – senza troppi peli sulla lingua – le storture di un sistema pubblico, quello italiano, che sembra fatto apposta per sfavorire chi vuol fare industria. Dopo lo scontro con la Fiom e la sconfitta giudiziaria, il destino di Fiat sembrava sempre meno legato al nostro Paese e la stessa casa automobilistica correva il rischio di diventare il nuovo simbolo del male (“il padrone che sbaglia”) di una sinistra sempre più con lo sguardo rivolto al passato ma ancora influente politicamente.
Questa condizione di “dialettica spinta” metteva e mette in difficoltà sia gli eredi dell’Avvocato che il premier Enrico Letta che quotidianamente deve fare i conti con gli spasmi della sua maggioranza e in particolare con la fronda continua delle correnti sinistrorse del Pd. Vedersi era quindi fondamentale per dimostrare che il governo si occupa sia della politica industriale che del dossier Fiat. Lato Torino, la colazione serviva a smussare gli angoli delle polemiche più recenti.
L’investimento nel Corriere infatti segnala la vocazione, ereditata dal nonno, di John Elkann di marcare la sua influenza sui media e di conseguenza anche sugli equilibri italiani in una chiave peraltro più transatlantica che strettamente europea. Non importa quindi cosa hanno mangiato e neppure cosa si sono detti. È di reciproca importanza il fatto che si siano incontrati, e che tutti lo sappiano.