A tracciare un parallelismo tra Egitto e Indonesia è stato a metà agosto lo stesso presidente Susilo Bambang Yudhoyono. “Abbiamo attraversato un simile processo di riforma e trasformazione politica 15 anni fa. Con spirito di collaborazione tra civili e militari, l’Indonesia è stata capace di navigare con sicurezza attraverso le sfide di questo processo”, ha detto il presidente indonesiano chiudendo il suo discorso con un appello alle Nazioni Unite affinché sostengano la riconciliazione nel Egitto sconvolto dalle violenze dopo l’intervento dell’esercito, pur sostenuto da una spinta popolare, che ha rovesciato il governo eletto a guida della Fratellanza musulmana, e nell’esortare l’Onu affinché spinga i governanti del Cairo a porre fine alla repressione contro i sostenitori del deposto presidente islamico Mohamed Morsi.
Da più parti nel Paese del Sud est asiatico arrivano esortazioni affinché Giacarta giochi un ruolo nella pacificazione egiziana. Quello indonesiano è visto come un modello per lo sbocco delle cosiddette “primavere arabe”, ora apparentemente ferme al bivio tra un ritorno dei governi autoritari o svolte islamiste sebbene arrivate attraverso elezioni.
Trascorsi 15 anni dalla caduta del regime di Suharto, pur con difetti come la corruzione imperante, l’Indonesia è oggi la terza democrazia più grande al mondo, dopo India e Stati Uniti, nonché il Paese con la più vasta popolazione musulmana, circa l’85 percento dei 251 milioni di indonesiani.
Secondo Mochammad Faisal Karim, la centralità data da Giacarta all’Asean, l’organizzazione che riunisce le nazioni del Sudest asiatico, e il principio di non interferenza che domina la politica estera indonesiana, hanno bloccato il Paese dall’imporre il suo ruolo di stabile democrazia musulmana. Sull’East Asia Forum elenca le cinque ragioni per cui, al contrario, dovrebbe mettersi in gioco per risolvere i problemi egiziani.
La prima è dettata da un obbligo morale. L’Indonesia ha fatto della promozione dei valori democratici una delle caratteristiche della propria politica estera e della propria identità internazionale sin dal Bali Democracy Forum del 2008. Secondo, nella transizione democratica il governo di Giacarta è riuscito nel compito di tenere a freno i militari. Va detto inoltre che, sebbene permangano posizioni islamiste, i partiti che si rifanno a queste correnti non trovano grande seguito nelle urne e anzi sono costretti spesso a moderare le tesi più radicali, come l’imposizione della sharia, per trovare voti.
Perorando la causa del popolo egiziano, il governo andrebbe incontro alle aspettative degli indonesiani, scesi in piazza in solidarietà con le vittime della repressione al Cairo, come in molti altri Paesi musulmani. Scrive Karim che la preoccupazione per la sicurezza ad Aceh, dove forti sono le spinte islamiste, e altri conflitti etnici possono aver fatto tentennare il governo che tuttavia deve fare i conti con la condanna per ciò che succede in Egitto arrivata dalle principali organizzazioni islamiche del Paese e dalle sollecitazioni ad agire di alcuni parlamentari.
L’Indonesia potrebbe cogliere l’occasione per dimostrarsi centrale come partner per gli Usa e infine potrebbe aver un ruolo di mediatore riuscendo dove hanno fallito o non hanno agito l’Unione europea, la Lega Araba e i Paesi del Golfo.
Il rovescio della medaglia è un commento del Jakarta Post, che mette in guardia il Paese dal rischio, a detta dell’articolista non del tutto sopito, che i militari possano rialzare la testa anche in Indonesia. Da una parte si assiste a un passaggio verso una versione più conservatrice dell’Islam in particolare per la perdita d’influenza e le lotta interne alle due principali organizzazioni islamiche la Nahdlatul Ulama e la Muhammadiyah. Pur avendo fatto un passo indietro dalla politica l’esercito gode inoltre di un buon sostegno popolare. Il rischio egiziano non è dietro l’angolo. Ma tenere a mente la lezione di quanto avviene al Cairo può essere utile, conclude editoriale di Endy Bayuni.