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La Corte Suprema USA e il matrimonio same-sex

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La Corte Suprema degli USA ha segnato una ulteriore, fondamentale tappa, nel processo di riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La recentissima sentenza Windsor v. United States, pubblicata lo scorso 26 giugno, ha infatti dichiarato incostituzionale la Section 3 del cd. “DOMA” (Defense of Marriage Act), una legge approvata nel 1996 (sotto la Presidenza Clinton), con il dichiarato intento di ‘stoppare’ a livello federale i tentativi di alcuni Stati (soprattutto a livello giudiziario, celebre una decisione della Corte Suprema delle Hawaii del 1993) di parificare le unioni omosessuali al matrimonio (eterosessuale).
In particolare, la disposizione impugnata poneva un principio molto chiaro, secondo cui “nella determinazione del significato di ogni norma legislativa approvata dal Congresso, come pure di ogni regolamento o disciplina adottata da uffici amministrativi e agenzie federali, la parola ‘matrimonio’ si riferisce solo all’’unione legale tra un uomo e una donna come marito e moglie, e la parola ‘coniuge’ o ‘sposo’ si riferisce solo ad una persona di sesso opposto che sia marito o moglie”.

Le motivazioni della Corte
La Corte Suprema ha ritenuto che tale qualificazione legislativa federale sia incostituzionale, in primo luogo perché viola la competenza degli Stati in tema di famiglia e di matrimonio. Dunque, questa parte del DOMA (per usare le parole della stessa Corte) “disrupts the federal balance”, e si discosta da una lunga storia e tradizione di riserva al diritto statale del compito di regolare e definire il matrimonio, anche con riferimento ad aspetti molto controversi, come l’età minima o i divieti collegati alla consanguineità.
Se quello della separazione dei poteri e del federalismo sembra essere il filo principale del ragionamento della Corte, tuttavia la dichiarazione di incostituzionalità aggancia le grandi questioni ‘sostanziali’ del matrimonio gay: il diritto delle persone omosessuali di non essere discriminate per il loro orientamento, la dignità di una scelta affettiva e relazionale che chiede riconoscimento giuridico, i limiti legati all’imposizione di una visione morale (che i Giudici non esitano ad identificare in quella cattolica) attraverso lo strumento legislativo.
Alcune affermazioni sono davvero forti ed impegnative; per la Corte Suprema, il DOMA è incostituzionale “come privazione della libertà personale”, “degrada una coppia, nonostante la Costituzione protegga le loro scelte morali e sessuali”, “umilia decine di migliaia di bambini oggi cresciuti ed educati da coppie omosessuali”.

Il percorso storico
In un certo senso, questa sentenza chiude un percorso molto complesso e accidentato della Corte Suprema degli USA, che ancora 27 anni fa (caso Bowers v. Hardwick, del 1986) giudicava costituzionalmente legittime le leggi statali (in verità solo di alcuni Stati) che sanzionavano penalmente i comportamenti omosessuali, e in particolare la sodomia; mentre già allora molto diversa era la posizione della Corte Europea dei diritti umani.
Dall’affermazione del diritto individuale ad essere se stessi, a non essere discriminati sulla base del proprio orientamento sessuale come contenuto fondamentale della identità personale, si è arrivati alla proiezione pluralistica e relazionale di questo diritto: appunto, al diritto a vivere la propria esperienza affettiva e di vita anche con un compagno o una compagna dello stesso sesso, e a vedere questa esperienza riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico.
Questa possibilità, ammessa in alcuni Stati (sono 13 ora, dopo che la stessa Corte Suprema, nella sentenza Hollingsworth v. Perry, sempre del 26 giugno scorso, ha respinto un ricorso tendente ad ottenere l’invalidazione di una decisione di una Corte federale ‘minore’ che aveva giudicato incostituzionale un emendamento alla Costituzione della California, la cd. Proposition 8, secondo cui appunto, “solo il matrimonio tra un uomo e una donna è valido e riconosciuto in California”), veniva completamente azzerata dalla Section 3 del DOMA, che privava i matrimoni omosessuali legalmente registrati in quegli Stati di tutte le tutele e i benefici previsti dalle leggi federali.

Cosa succederà in futuro
In sintesi, la dichiarazione di incostituzionalità of the section 3 of the DOMA elimina l’ostacolo a poter godere dei benefici federali connessi allo status di ‘coniuge’.
Certo, chiuso un capitolo (quello per così dire “federale”), si apriranno rapidamente altri ‘fronti’, che potranno contare però sul deciso ‘endorsement’ della Corte Suprema Federale (e di molte Corti statali) in favore del diritto degli omosessuali a vivere relazione stabili e protette dal diritto, e della stessa ‘genitorialità’ di queste coppie.
Il potere degli Stati di decidere su questioni ‘sensibili’ come quelle sulla famiglia e sul matrimonio continuerà a trovarsi in conflitto con i temi dell’eguaglianza, del diritto di sposarsi, con la stessa libertà di circolazione delle persone in tutto il territorio nazionale, altro pilastro del sistema federale, che potrebbe – secondo alcune interpretazioni – presupporre che chi si muove sul territorio nazionale possa farlo portando con sé i suoi diritti e libertà fondamentali protetti dalla legge dello Stato di ‘provenienza’ (profilo questo, che presenta una evidente assonanza anche con la situazione europea).

Questioni sospese
Insomma, la sentenza Windsor può essere considerata un ‘punto di non ritorno’: indietro non si può più andare, davanti però restano alcuni nodi da sciogliere.
Tra questi, proprio il tema del diritto delle coppie omosessuali di avere figli, con l’adozione o l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita.
La Corte Suprema non si pronuncia su questo profilo, che resta controverso anche in quegli ordinamenti che ammettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso, o definiscono per queste un istituto giuridico ‘autonomo’ (come i vari modelli di partnership registrata, unione civile, o il LebenPartnerSchaft introdotto nel 2001 in Germania); se non per quell’accenno (che sembra più un rafforzamento ‘retorico’ della motivazione) alle ‘migliaia di bambini cresciuti da omosessuali che sarebbero stati “umiliati” da una legislazione come il DOMA.

Antonio D’Aloia è Ordinario di Diritto Costituzionale e Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche nell’Università degli Studi di Parma ed è esperto di diritto sanitario, diritto della persona e biodiritto.


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