Lettera pubblicata oggi sul quotidiano Il Corriere della Sera
Nel suo articolo del 23 agosto su questo stesso quotidiano Michele Salvati avanza molte giuste riflessioni sulla necessità che la crescita entri seriamente nell’agenda politica dell’Unione Europea e, nel ribadire l’importanza dell’adesione all’euro, afferma che nel momento della decisione di farne parte “soprattutto sperava che la disciplina esterna avrebbe contribuito a una politica economica più responsabile”. Subito dopo riconosce anche d’aver “trascurato … che le grandi differenze di produttività, competitività, efficienza, capacità di governo dei diversi Stati avrebbero reso assai faticoso il funzionamento del sistema.”
Penso che con la sua ben nota capacità di sintesi Michele Salvati abbia sottolineato i due errori commessi dalle scelte di fondo della politica italiana dai quali stentiamo a uscire, soprattutto perché ancora difendiamo queste scelte coltivando la speranza che cambi l’attitudine dei membri autorevoli, forse la maggioranza, dell’Unione Europea. Anche se questo resta il problema principale, non è di questo che intendo parlare. Conosco così bene il molto e il buono che ha scritto Michele Salvati per cambiare la deriva errata della storia italiana (ed egli lo sa) e ho vissuto così a stretto contatto con i protagonisti coscienti della scelta dell’euro, inteso come vincolo salutare e positivo per la nostra economica e società, che stento a ritenere che Salvati si sia illuso sulle possibilità di cambiamento dell’Italia o abbia trascurato le condizioni di partenza (e di arrivo) del nostro Paese.
Egli conosce come me le “Considerazioni finali” di Carli, Baffi e Ciampi e le loro dichiarazioni successive; essi hanno spiegato chiaramente che lo SME, molto più elastico, il Trattato di Maastricht, molto più rigido, e l’euro, uno status per principio irreversibile, presupponevano che l’Italia decidesse di cambiare spartito di politica economica. Non sono certo se essi avessero un eccesso di fiducia nelle capacità della politica e del Paese di cambiare o se, presi dalla sfiducia, avessero deciso di imbrigliare la politica e la società per costringerla a cambiare, volente o nolente. Essi certamente non potevano pensare che l’Italia non ce l’avrebbe fatta, posizione che tuttora i gruppi dirigenti respingono, perpetuando l’illusione di Salvati di farcela a cambiare indotti dal vincolo esterno.
Euro über alles. Direi che Carli fosse dal lato di coloro che avevano perso fiducia nel Paese, mentre Ciampi era da quello opposto. Il più lucido, come sempre, era Baffi, il quale condusse battaglie fin dalla creazione dello SME per avere migliori istituzioni europee di quelle che venivano decise sotto la spinta di un impraticabile compromesso. Egli ben sapeva, come Salvati, che vi erano forti vincoli interni con tratti irriducibili nel breve periodo, ma dava importanza anche a quelli esterni che si andavano delineando, forse è meglio sovrapponendo dopo l’abbandono dell’Accordo di Bretton Woods. Una frase della sue Considerazioni finali lette nel 1979 è particolarmente significativa: “perché la costituzione di un’area regionale può comportare il danno della formazione di blocchi, rilevante soprattutto nel caso dell’Europa storicamente intesa. Questo rischio non meriterebbe d’essere affrontato se l’area regionale non realizzasse una sua effettiva e operante coesione interna [il corsivo è mio]. L’istituzione del Sistema monetario europeo è stata concepita nel vertice di Brema come elemento fondamentale di un rinnovato impulso all’integrazione economica e finanziaria europea; una maggiore stabilità monetaria e di cambio doveva essere perseguita quale parte di un’azione comune per accelerare la crescita, per diminuire la disoccupazione e l’inflazione e per rafforzare le economie meno prospere della Comunità.”
Se di riforme si deve parlare, queste non riguardano solo l’Italia e ringrazio Salvati per avere sollevato il problema. Spero che esso divenga l’oggetto delle prossime elezioni europee anche in Italia.