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Pedofilia, un delitto sottovalutato

Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona

Indigna, ma non sorprende quello che gli italiani hanno appreso qualche giorno fa a Roma, quando un uomo condannato in primo e secondo grado a tre anni di carcere per violenza sessuale a danno di una bambina, è stato rimandato a casa dai giudici. Con la conseguenza che non sconta in prigione tutta la pena già ridicola ottenuta col rito abbreviato, e che potrà riapparire in carne e ossa davanti alla sua piccola vittima, abitante con la mamma proprio al piano di sotto.

Aleggerà come un vecchio e spaventoso fantasma del passato che non passa. E stiamo parlando di una bambina oggi tredicenne, che è stata molestata per anni fra il 2005 e il 2010, trovando alla fine il coraggio di raccontare tutto alla madre vedova. Di raccontare che quell’uomo sposato, nella cui abitazione la mamma a volte la lasciava perché costretta a improvvisi impegni di lavoro, non era il vicino di fiducia che pur sembrava. Era un pedofilo.

Indigna, ma non sorprende il contesto di insensibilità generale verso i colpevoli di un delitto del tutto sottovalutato, come dimostrano, d’altronde, la pena irrisoria per fatti gravissimi e la leggerezza con cui hanno agito prima i legislatori nello scrivere la legge e poi i magistrati nell’applicarla. Come se questo tipo di violenza fosse paragonabile ad altre e pur odiose violenze. Impossibile: qui si colpiscono non solo persone innocenti, ma innocenti nell’età dell’innocenza.

Eppure, se da un lato la pedofilia è generalmente considerata quel che è, cioè un delitto infame, dall’altro si stenta a riconoscere il pedofilo che la commette. E’ un Male spesso senza volto, perché si fatica a pensare che un uomo adulto, magari anche marito e padre di famiglia, il classico “buon vicino di casa” possa trasformarsi in mostro a contatto con minorenni. A torto, si ritiene “improbabile” o frutto di fantasia – i bambini, si sa, amano fantasticare -, il racconto-denuncia di un minore. La società non si convince che un bambino, soprattutto un bambino, sia portato a dire la verità, nient’altro che la pura e semplice verità.

E così, anziché indagare subito e bene sul sospetto pedofilo indicato dal minore, si finisce per inquisire la famiglia denunciante. Si finisce per fare le pulci alle dichiarazioni del bambino (“avrà per caso trasfuso nella realtà una scena di nudo vista in tv?”). Si finisce per ricorrere a un garantismo cieco e impotente a scapito del concreto e logico accertamento dei fatti. Nel dubbio si tende a pensare non che l’uomo irreprensibile possa essere un orco, ma che il bimbo o la bimba che lo additano, si siano inventati una loro brutta favola.

Illuminante è la storia firmata da Claudia Mehler e pubblicata di recente da Mondadori, “Alla fine resta l’amore”. La più importante casa editrice in Italia presenta, in realtà, una vicenda costretta alla clandestinità fin dall’identità dell’autrice, essendo Mehler uno pseudonimo. Con nomi, cognomi, date e luoghi tutti irriconoscibili in un racconto, invece, autentico, vissuto e pieno di terribili particolari. Il racconto di una bimba di sei anni che ha la forza di confessare alla madre le molestie sessuali subìte da un bidello. Ma la scelta della famiglia di denunciare il fatto, credendo alla versione della figlia e ai molti e verificabili dettagli che fornisce, non porta nemmeno a un processo. Perché nella bilancia della giustizia l’indagato, “presunto innocente”, pesa molto di più della vittima che lo denuncia, specie se è bambina. E’ la vittima, paradossalmente, che dovrà discolparsi: dall’ipotesi altrui d’aver equivocato, inventato, fantasticato, chissà. Testimonianza camuffata, nel libro, ma incisiva come la voce di una coscienza in una vicenda rimasta fuori da un tribunale. Clandestina, appunto. Ma che grida verità da ogni pagina.

E allora non ci si stupisca, ma ci si indigni, se hanno deciso di far tornare a casa un pedofilo, incuranti di sapere che ne sarà della bambina alla finestra del piano di sotto.

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