Il Department of Commerce americano ha diffuso i dati sull’andamento del Pil (o come lo chiamano loro GDP – gross domestic product) del secondo trimestre 2013: un + 1,7% che può essere considerato un buon successo per l’amministrazione Obama.
La ripresa americana c’è, certificata da un balzo imprevisto nell’ultimo trimestre del Pil (+1,7%, appunto), con la produzione industriale che cresce oltre le aspettative degli analisti (a Wall Street stimata a +1,1%), stimolata dalla politica espansiva della Fed.
Ma una delle virtù degli americani è di non accontentarsi mai. E allora ecco spuntare, accanto ai risultati positivi del “vecchio Pil”, una revisione contabile avviata dalla amministrazione statunitense per “ricalcolare” il Pil includendo anche il potenziale economico di opere di ingegno come film, serie Tv e altre forme di arte. Con questa “revisione statistica”, spiegano dal Bureau of Economic Analysis (l’Istat americano), si potranno anche “misurare i possibili incassi” derivanti dal contributo della “creatività”. Si è valutato che questa operazione possa generare 400 miliardi di dollari di Pil in più. E così, alla fine, l’indicatore Pil darà segnali un po’ più positivi di prima, ma non (o non solo) perché è ripartito il motore dello sviluppo, piuttosto perché si è deciso di misurare ciò che prima esisteva e non veniva calcolato.
Insomma, anche oltre Oceano cedono alla “dittatura del Pil” e tentano di mantenere i conti in ordine con un abile esercizio statistico che, seppur discusso e condiviso nel System of National Accounts (sistema di contabilità nazionale delle organizzazioni economiche internazionali come ONU, FMI, OCSE, BIRS), consentirà agli americani di trovarsi, dall’anno prossimo, un Prodotto interno lordo più alto del 3% grazie alla inclusione nella formula di calcolo di alcuni “fattori immateriali”.
Certamente non è questa la strada che consentirà di avere maggiore sviluppo reale e nuovi posti di lavoro, e non potrà essere questa la soluzione ai problemi europei legati ai parametri di Maastricht. Non è dunque una rivoluzione economica, ma un cambiamento culturale, un nuovo approccio che considera i beni immateriali centrali per la crescita delle economie più avanzate.
Attenzione però a non farsi trarre in inganno: questa iniziativa non ha nulla a che vedere con il più ampio dibattito sulle cosiddette misure integrative del Pil, quelle cioè indirizzate a determinare “nuovi” indicatori di progresso della società. Insomma, non confondiamo l’economia reale con quella “culturale”.
Bisogna infatti chiarire che le esperienze in materia, ormai diffuse in tutto il mondo, Italia compresa, non intervengono direttamente sull’indicatore Pil modificandolo, ma lo integrano, lo affiancano. I “nuovi indicatori”, come quelli individuati dal Cnel e dall’Istat nel Rapporto sul Benessere Equo e sostenibile, non sono sottoindicatori del Pil, sono “altri” indicatori integrativi di tipo qualitativo, utili per una analisi delle potenzialità di progresso.
Se non si chiarisce questa differenza fondamentale si rischia, come dice lo scrittore americano Darrel Huff in un suo noto libro, di “mentire con le statistiche”. E se lo dice un americano.