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Aziende e lavoratori sono vittime di un sortilegio globale che vuole deindustrializzare l’Italia

Annichiliti, assistiamo all’inarrestabile stillicidio dell’industria italiana. Non c’è giorno che passi in cui non ci danno notizia del solito cliché: azienda manifatturiera che chiude, licenzia gli operai e si trasferisce in un paese low cost, con tutti gli strascichi del caso.  Qualcuno l’ha fatto anche di notte in fretta e furia per evitare i picchetti sindacali. Uno schema semplice quanto profondamente cinico. Il punto grave di tutta questa faccenda è che non siamo di fronte il normale avvicendarsi, tipico di un’economia libera, di aziende che muoiono e altre che nascono, come in una specie di naturale “staffetta della vita di mercato”.

No. La storia è ben altra. L’Italia sta progressivamente perdendo le sue aziende manifatturiere, e con esse migliaia di posti di lavoro, perché è in atto una trasformazione dell’economia mondiale la cui conseguenza è lo spostamento delle produzioni industriali e manifatturiere nei paesi a basso costo di manodopera e con scarse regole del lavoro.  E’ la filosofia imperante del low cost estesa anche ai salari e ai diritti minimi del lavoro.

Basti ricordare per tutti il tragico incidente del 24 aprile scorso nella fabbrica tessile “Rana Plaza” di Dacca in Bangladesh, dove vengono prodotti molti capi che magari proprio in questo momento indossiamo,  cui persero la vita oltre 900 operaie per uno spaventoso incendio.  Oppure le condizioni di lavoro al limite della sopportazione e che hanno causato numerosi suicidi alla Foxconn, in Cina, da cui escono gli i-phone e gli i-Pad ma alla quale si rivolgono tantissime multinazionali tecnologiche come Amazon, Microsoft e Nokia, solo per citarne qualcuna.

Le tantissime aziende con sani principi sono le prime vittime di questa “prigionia” che li obbliga a recitare ogni giorno un mantra che ha sempre lo stesso nome: competitività estrema.  Qual è il risultato di tutto questo per la seconda economia industriale in Europa e la quarta del Mondo?  Dal 2007 è in atto un progressivo processo di deindustrializzazione dell’economia italiana. Negli ultimi 5 anni è andato in fumo circa il 20 per cento della produzione industriale, secondo quanto anticipato in questi giorni nel rapporto sulla competitività in via di approvazione a Bruxelles. Un quinto della nostra produzione manifatturiera è stato smantellato.  Non basta la lunga crisi ha spiegare la debacle. Le cause vere sono nelle parole di due imprenditori assunti agli onori delle cronache in queste settimane che ci hanno spigato in modo elementare cosa sta succedendo.

Illuminanti le parole dell’amministratore delegato della Indesit, Marco Milani, rilasciate in una recente intervista al Corriere della Sera sulla decisione dell’azienda di delocalizzare in Polonia e Turchia: “La crisi del settore degli elettrodomestici è schiacciata tra il crollo dei  consumi in Europa (-10% e in Italia -25% sul 2007) e l’incalzare dei produttori a basso costo asiatici. Inoltre, l’euro forte nel 2013 ha prodotto sul cambio un impatto negativo di 40 milioni sui conti dell’azienda.  Anche colossi come Whirpool e Electrolux che hanno basi produttive in Europa si sono mossi verso Est alla ricerca di costi più bassi. A fronte di un costo di 24 euro per un’ora lavorativa in Italia, in Polonia se ne spendono 5 e in Turchia 6. In Italia non è più possibile produrre in modo sostenibile elettrodomestici economici”. Tre concetti chiave che spiegano tutto: crisi lunga, euro forte e concorrenza a basso costo. Risultato? Fuga dall’Italia.

La soluzione, in parte provocatoria e in parte no, l’ha proposta un imprenditore simbolo del made in Italy e del riscatto del Mezzogiorno, Pasquale Natuzzi, patrono dell’omonimo gruppo, quando ha detto che per salvare 600 posti di lavoro su 1.700 esuberi bisogna portare la Romania in Italia.  La ragione? Eccola: il costo di produzione per minuto della Natuzzi in Cina è di 10 centesimi, in Romania poco sotto i 30 centesimi mentre in Italia siamo a 92 centesimi il minuto. Già la produzione della bassa gamma che Natuzzi produce per Ikea la realizza soprattutto tra il Brasile e la Cina. L’alta gamma è ancora in Italia ma sembra avere i giorni contati a giudicare dagli esuberi annunciati.  Visto che la Romania non possiamo importarla la soluzione trovata alla Natuzzi sembra quella di dare seguito ai licenziamenti annunciati per poi riaffidare a società costituite dagli operai licenziati, in qualità di subfornitori, la produzione dei divani. In questo modo l’azienda realizza un risparmio strutturale significativo grazie anche a varie risorse economiche pubbliche che confluirebbero nelle nuove società e gli operai salvano il lavoro.  Siamo di fronte un fantasioso ammortizzatore sociale? Vedremo. Sembra, tuttavia, di assistere alla riproposizione di sterili palliativi.

Se non portiamo la Romania in Italia è sufficiente la scelta di puntare sulle produzioni di alta qualità e sull’innovazione di prodotto per riposizionare la manifattura italiana nell’economia globalizzata e salvarci? La sensazione e che anche questo non sia sufficiente, a giudicare dalle difficoltà che vivono tante medie aziende manifatturiere di successo, che vendono soprattutto all’estero e che per essere competitive sono costrette ad inseguire la Cina. La qualità è una strada obbligata ma non sembra la soluzione. Che succederà se sul terreno della qualità saliranno anche i paesi, le avvisaglie già ci sono, che oggi sono l’isola felice delle produzioni off shore?

La ragione di fondo di tale declino non riguardano tanto il microcosmo della singola impresa, che agisce sempre di più in balia del suo istinto primordiale di sopravvivenza, ma risiedono nel macrocosmo delle regole dell’economia mondiale.  E’ qui la fonte del problema. Possiamo accettare in nome di una presunta e discutibile globalizzazione “senza regole” che l’Italia, ma non solo, accetti il destino irreversibile (?) di depauperare il suo sistema produttivo e bruciare posti di lavoro come fiammiferi?

Le nostre classi dirigenti hanno pesanti responsabilità su quanto sta avvenendo, soprattutto a livello politico, ma la forza che ha controbilanciato storici ritardi italiani e ci ha resi famosi e apprezzati in tutto il mondo è stata la forza della manifattura italiana, il saper fare di una moltitudine di maestri artigiani e l’unicità del made in Italy.  Queste le colonne sulle quali poggiava il benessere di quella che tempo fa è stata la quinta potenza economica al mondo. Ha senso accettare supinamente che la nostra identità finisca in fumo per uno strano concetto di progresso?

Se condividiamo la diagnosi e più facile trovare la cura. La sensazione, però, è che ci sia in giro un diffuso senso d’impotenza che immobilizza ogni facoltà di azione.  E allora, per non affogare, ognuno cerchi da solo la scialuppa di salvataggio?



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