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Cari Colaninno e Bernabè, perché non vi dimettete?

I passaggi di Telecom e Alitalia sotto le bandiere, rispettivamente, spagnola e francese sono due pessime notizie. Qualunque cosa dicano liberisti e globalizzatori, si tratta di due nuove tappe di quel lungo tour verso la deindustrializzazione iniziato ormai da anni.

Questo è stato detto e ridetto, scritto e riscritto ed è inutile ripetere motivazioni e argomenti ormai noti a tutti. Oggi, poche ore dopo la decisione relativa a Telecom e (si presume) poche ore prima di quella sul destino di Alitalia, vale la pena spendere due parole su un aspetto specifico di queste vicende parallele.

La doppia brutta notizia sarebbe attenuata se almeno fosse accompagnata da altrettanti comunicati stampa delle società con l’annuncio delle dimissioni di Franco Bernabè dalla presidenza di Telecom e di Roberto Colaninno da quella di Alitalia. D’accordo, la situazione non cambierebbe, le due imprese passerebbero comunque in mani straniere senza alcun vantaggio per il Paese e per gli azionisti di minoranza, però almeno si affermerebbe un principio: persino in Italia una delle regole base del capitalismo viene rispettata e chi sbaglia se ne va.

Perché dico che Colaninno e Bernabè dovrebbero avere la delicatezza e il buon gusto di dimettersi? Semplice: perché la loro missione si è rivelata un insuccesso; entrambi si erano lanciati in un’impresa con un obiettivo che non sono riusciti a centrare. Probabilmente non solo per colpa loro: le condizioni esterne, il mercato, la crisi, i rispettivi azionariati confusi e titubanti, hanno reso la navigazione difficile, tormentosa. Però la realtà non cambia: se una nave non raggiunge il porto, la colpa è del capitano, o perché ha sbagliato rotta o perché non ha saputo rinunciare al comando, cedere il timone ad altri quando ha visto la corrente era troppo forte per lui.

Colaninno è un imprenditore affermato, diventato famoso per aver scalato Telecom Italia sottraendola al nocciolo duro degli azionisti chic guidati dalla famiglia Agnelli per rivenderla poi, con lauto guadagno, alla cordata guidata da Marco Tronchetti Provera. Ha poi acquistato e rilanciato la Piaggio e altre società. Insomma ha saputo far bene e aveva tutte le carte in regola, le credenziali giuste per guidare quell’eterogenea e stravagante squadra di patrioti chiamati da Silvio Berlusconi a garantire l’italianità della nostra compagnia di bandiera che Romano Prodi, nelle sue ultime giornate a palazzo Chigi, aveva invece già messo nella mani di Air France. Colaninno ha creato la Cai, una newco di salvataggio per Alitalia, e ha raccolto attorno a sé il meglio (si fa per dire) dell’imprenditoria nazionale. Quel team ha dimostrato ben presto di non essere granché (c’erano anche, tanto per dire, i Ligresti e i Riva) e soprattutto ha detto chiaro e tondo di non voler dedicare all’italianità  più di qualche spicciolo. Intanto Colaninno litigava con i manager, li sostituiva e con essi Alitalia mutava strategie con la disinvoltura di chi è abituato alle virate: prima doveva battersi sull’intercontinentale, poi accontentarsi di un ruolo di compagnia domestica concentrata sul mercato europeo; però tagliava i voli in Europa e, da ultimo, ha riscoperto il fascino del lungo raggio. Una confusione totale che, con l’aggravarsi della crisi economica, ha portato Alitalia al disastro in cui si trova oggi. Chi l’ha pilotata fin qui, appunto Colaninno, dovrebbe salutare e ringraziare i passeggeri per la loro educata pazienza, e scendere a terra.

Il caso Bernabè-Telecom è un po’ diverso. L’attuale presidente della compagnia telefonica non è un imprenditore, ma un manager. Ha iniziato alla Fiat, poi è passato all’Eni diventandone amministratore delegato e svolgendo un lavoro egregio. Nel 1998 è stato amministratore delegato di Telecom Italia per pochi mesi perché fatto fuori proprio dalla scalata di Colaninno. Nel 2007 è ritornato come amministratore delegato in Telecom a quel punto controllata da Telco, una finanziaria posseduta dagli spagnoli di Telefonica e da altri patrioti italiani come Mediobanca, Intesa e Generali (all’inizio c’erano anche i Benetton, tempestivamente delilatisi). Qual era il compito di Bernabè? Ridurre l’indebitamento della società, tagliare i costi e soprattutto darle una strategia che le permettesse di continuare a battere bandiera italiana nel difficilissimo contesto internazionale delle telecomunicazioni. I costi sono stati tagliati; i debiti rimangono quelli di prima; quanto alla bandiera, da ieri è quella con i colori sangue e oro della Spagna. Forse Bernabè non poteva fare molto di  più: i suoi azionisti italiani, oberati da mille problemi, non vedevano l’ora di andarsene e per un generale è difficile vincere in battaglia se le truppe se la svignano. Però questo 8 settembre era prevedibile già nel 2007.

Conosco Bernabè da più di 40 anni. Quando è stato designato ad di Telecom nel 2007, vista qual era la compagine azionaria, in un articolo gli avevo consigliato di rifiutare l’incarico perché rischiava di farsi del male, di sciupare la sua immagine di manager costruita in anni di eccellente carriera. Purtroppo avevo ragione.


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