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Quando l’Italia dimentica le donne

Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sull’Arena di Verona

Quando s’è reso conto, durante il tradizionale appuntamento di Cernobbio, a Como, che ad ascoltarlo erano tutti maschi, Enrico Letta ha detto l’unica cosa che andava detta: “È insopportabile”. Parole, del resto, del ventiseiesimo presidente del Consiglio uomo dell’era repubblicana: tutti e ventisei soltanto uomini. Come gli undici presidenti della Repubblica che si sono succeduti in settant’anni: tutti uomini. Come i venti presidenti del Senato che si sono alternati di legislatura in legislatura: tutti uomini.

Per trovare tre donne (tre, non trenta) al vertice delle istituzioni, bisogna appellarsi alla Camera. Dei quattordici presidenti che abbiamo avuto, Nilde Iotti, Irene Pivetti e l’attuale Laura Boldrini rappresentano l’eccezione che conferma la regola. E che, tirando le somme, è questa: politicamente parlando, l’Italia è stata guidata dai maschi per il 96 percento della sua storia dal secondo dopoguerra a oggi. Alle donne è toccato uno spazio di comando pari al 4 percento: le già citate tre eccezioni rispetto al totale dei 71 presidenti fra Quirinale, palazzo Chigi, palazzo Madama e Montecitorio.

Attenzione, il 4 perc ento, ossia un’inezia, a fronte di un elettorato nel quale le donne costituiscono ben più dell’”altra metà del cielo”, perché superano di due milioni gli uomini. “Insopportabile”, dunque, proprio come notava Letta.

Forse fuori dai partiti e lontani dalla politica la situazione migliora? Proviamo a guardare nello sport. A fronte delle tre medaglie d’oro (su otto) che le atlete italiane hanno conquistato alle ultime Olimpiadi di Londra, e rispetto a una presenza e a un peso equivalenti a quelli degli atleti, le presidenti di federazioni sportive sono due. Due signore su un totale di 91 poltrone fra federazioni nazionali (45), associate (19), enti di promozione sportiva (16) e gruppi sportivi militari e Corpi dello Stato (11). Nello sport, quindi, la percentuale irrisoria e irridente del 4 percento della politica a guida femminile si riduce al 2,2 contro il 97,8 percento dei presidenti maschi.

Ma altrove, per esempio nel competitivo mondo imprenditoriale, che succede? Tante sono le donne nella trincea del lavoro. Ma quando si va a vedere, anche qui, la leva del comando, si scopre che dei ventinove presidenti che hanno guidato, a turno, la Confindustria, una sola è stata “presidentessa”: Emma Marcegaglia. Tolta lei, gli altri ventotto tutti uomini. Se poi dal settore privato torniamo al pubblico, e guardiamo nell’importante – specie di questi tempi – settore della giustizia, rispetto alle moltissime donne-magistrato in tanti tribunali d’Italia, e soprattutto alle giovani vincitrici di concorso, nessuna di loro è ancora diventata presidente della Corte di cassazione.

Dal 1876 ad oggi sulla poltrona più alta di chi giudica “in nome del popolo italiano”, si sono seduti trenta uomini. E abbiamo, così, raggiunto il primato: dal 4 percento al vertice delle istituzioni politiche, al 2,2 delle istituzioni sportive allo zero assoluto di quel che viene chiamata, non per caso, Suprema corte. Da sempre presieduta da uomini, cento percento. Come la Corte costituzionale, l’Alta corte: trentasei presidenti, trentasei uomini. Cento per cento. E allora la conclusione è chiara.

Nella società le donne pesano, pesano moltissimo e ovunque. Ma non contano. Contano pochissimo, sono fuori dal potere, escluse ancora oggi dalla possibilità di decidere dove si decide. Il convegno di Cernobbio è stato solo lo specchio di questa amara, iniqua e anacronistica realtà, che penalizza gravemente l’altra metà del cielo e l’Italia intera.

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