Ormai il dado è tratto. Il dispositivo militare americano per un intervento contro la Siria è stato perfezionato e, nonostante i ripensamenti francesi e britannici, Obama sembra intenzionato ad attivarlo.
L’attacco è programmato di durata limitata, ma l’esperienza dimostra che nella maggior parte dei casi le “guerre lampo” sono una pia illusione, ben lungi dal produrre una soluzione duratura. Qui non intendiamo fare un’analisi politico-strategica dell’intervento, ma solo esaminarne la legalità, tenendo conto dei precedenti.
Giustificazioni dell’intervento
Le giustificazioni dell’intervento secondo Cameron, Hollande e Obama andrebbero trovate nel superamento della linea rossa, costituita dall’uso massiccio di armi chimiche contro gli insorti e la stessa popolazione civile da parte di Assad.
Quantunque si attenda ancora la prova della pistola fumante, poiché il lavoro degli ispettori Onu non è concluso, l’uso di armi indiscriminate e l’impiego della violenza bellica contro la popolazione civile giustificherebbero, secondo britannici, francesi e americani, un’azione militare a titolo d’intervento d’umanità per la violazione dell’obbligo, da parte del regime al potere, di proteggere la popolazione e di impedire che siano commessi crimini di guerra su larga scala, crimini contro l’umanità o il genocidio (c.d. responsibility to protect).
Il primo punto da chiarire è se l’intervento umanitario postuli un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza (Cds) delle Nazioni Unite oppure possa essere intrapreso anche in sua assenza.
A parere di chi scrive, un’autorizzazione è necessaria e tale tesi è condivisa da un numero ragguardevole di esperti di diritto internazionale. Ma vi è anche un’opinione contraria, per cui si potrebbe intervenire anche senza autorizzazione del Cds, quando vi sia stato un veto o si suppone che ci sia.
Una posizione intermedia è quella secondo cui l’intervento umanitario è di per sé contrario al diritto internazionale, ma l’originaria illiceità potrebbe essere sanata da una successiva risoluzione del Cds, come avvenne per il Kosovo.
Altra tesi spesso enunciata è quella che distingue tra legittimità e legalità dell’intervento umanitario. L’intervento, senza l’autorizzazione del Cds, sarebbe moralmente giustificato e dunque legittimo, anche se illegale. Ma tale tesi è difficilmente condivisibile ed è stata prospettata proprio per rimediare ad un’assenza di giustificazione giuridica.
Precedenti
Quali precedenti possono essere invocati? Immediatamente dopo la fine della Guerra Fredda taluni interventi sono stati autorizzati dal Cds, come quello della Francia in Ruanda in attesa della costituzione di una forza delle Nazioni Unite, o i raid della Nato per garantire l’interdizione aerea nei cieli della Bosnia-Herzegovina.
Successivamente la Nato è intervenuta in Kosovo (1999) e una “coalizione di volenterosi” (coalition of the willing), a guida degli Stati Uniti, in Iraq (2003), senza l’autorizzazione del Cds. Nel caso del Kosovo, vi fu una decisione della Nato, un attore regionale quanto lo è la Lega Araba. Di questa, come di altri stati della regione, viene ora ricercato il consenso per giustificare la legalità dell’intervento. L’intervento in Libia (2011) fu autorizzato dal Cds, ma probabilmente le ostilità sono andate oltre l’iniziale autorizzazione e questa volta Russia e Cina, memori proprio dell’esperienza libica, sono molto guardinghe.
Posizione italiana
La posizione italiana espressa dal Ministro degli esteri nelle commissioni affari esteri congiunte di Camera e Senato il 27 scorso è stata netta e recisa: l’Italia non prenderà attivamente parte all’intervento senza un’autorizzazione del Cds.
In questo senso il ministro Emma Bonino, a parte ogni considerazione politico-strategica, ha preso partito per la legalità onusiana. Ribadita poi in una serie di interviste, con l’aggiunta che qualsiasi azione, anche se autorizzata dal Cds, dovrebbe essere preceduta da un approfondito dibattito parlamentare. Una posizione completamente opposta a quella tenuta dal nostro paese nel 1999 quando partecipammo attivamente al conflitto del Kosovo.
Ostano anche ragioni costituzionali, rappresentate non tanto dall’art. 11, che condanna la guerra di aggressione, poiché nel caso concreto l’intervento per le sue modalità e contenuti non sarebbe né guerra né aggressione, quanto dalla perfetta aderenza alla norma costituzionale (art. 10), che ci impone comportamenti conformi alla normativa internazionale e quindi di non usare la forza in contrasto con i divieti stabiliti dalla comunità internazionale. Per intanto è stato deciso di non aiutare gli insorti con l’invio di armi.
Criminalità della guerra chimica
A parte ogni altra considerazione, l’uso dell’arma chimica costituisce ormai un crimine internazionale, anche da parte dei cittadini di quegli stati che non hanno ratificato la Convenzione sul disarmo chimico del 1993. La Siria è tra questi, mentre ha ratificato il Protocollo del 1925 sul divieto di uso in guerra di armi chimiche e batteriologiche.
La tesi secondo cui il Protocollo vieterebbe l’uso dell’arma solo in caso di guerra internazionale e non in caso di guerra civile è del tutto superata. Il divieto riguarda non solo il regime di Assad, ma anche i ribelli: pure essi sono passibili di essere condannati come criminali di guerra qualora usino le armi chimiche o commettano altre gravi violazioni del diritto umanitario. Per questo sarebbe opportuno che alla Corte penale internazionale (Cpi) fosse deferita la “situazione” siriana – e non il solo capo dello stato e il suo entourage.
Si dovrebbe ripetere l’esperienza libica. Prima di autorizzare l’uso della forza, il Cds deferì la situazione libica alla Cpi. Tale deferimento sarebbe necessario anche per la Siria, poiché questa, come lo era allora la Libia, non è parte dello statuto della Cpi e quindi la Corte non potrebbe esercitare la sua giurisdizione senza un atto ad hoc del Consiglio.
Resta da vedere se la Russia, che si oppone ad una risoluzione del Cds autorizzante l’uso della forza, si opporrebbe anche al deferimento della situazione siriana. L’intervento armato non favorirebbe certamente una soluzione in tal senso, che sarebbe tra l’altro di garanzia per coloro che dovessero essere giudicati dalla Cpi, poiché, come dimostrano le rivoluzioni e controrivoluzioni arabe, il principio del giusto processo non è un punto forte dei tribunali della regione.
Occasioni perse
La comunità internazionale ha perso tempo prezioso e ha fatto incancrenire il conflitto che non sarà verosimilmente risolto dall’intervento occidentale.
Una delle prime cose da fare sarebbe stata la messa in sicurezza dell’arsenale chimico siriano, in modo che né il governo al potere né i ribelli (per non parlare dei gruppi terroristici) potessero disporne.
L’Organizzazione per il disarmo chimico, con sede all’Aja, si era dichiarata disposta a occuparsene, ma in mancanza di una richiesta del Cds e del consenso delle parti in causa non poteva operare poiché la Siria non ne è membro.
In attesa di una risoluzione politica non si è neppure potuto creare delle aree protette all’interno della Siria, e non solo ai suoi confini, immuni da combattimenti, dove la popolazione civile avrebbe potuto godere di una effettiva protezione. Ciò avrebbe postulato un’adeguata e presenza militare Onu, poiché le zone protette “disarmate” sono facili preda dei contendenti.
Ora la parola è alle armi, ma difficilmente si potrà ripetere un’esperienza tipo Kosovo, con il ritiro di Milosevic. In questo caso il conflitto coinvolge infatti l’intero stato e non solo una porzione del suo territorio.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali.