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Figli di Italia, ai tempi della crisi

Preoccupazione giovanile.
Mi riferisco ai trentenni di oggi, senz’altro i figli del precariato, ai quarantenni, ai paradossi italiani per cui non si sa se cinquanta anni sono troppi o pochi: “per smettere di lavorare, pochissimi. Per trovare un posto, troppi. Lo dicono gli annunci economici che, in barba alla legge, pongono ai candidati un limite d’età. Cronaca dell’ultimo dei pregiudizi. Il più difficile da mandare in pensione”. Sembriamo tutti comparse e il testo scenico di riferimento non può che essere: “Aspettando Godot”. Persone dallo stato apatico, privi di passioni ardite, o giovani da hard disk che padroneggiano il mondo di internet e in quello dei loro padri ci stanno stretti ma senza astio e senza astro? Pensiamo ad una prospettiva lavorativa; siamo soggetti a rischio, e chi ci guadagnerà da coetanei che sognano a targhe alterne, da passioni part time? Quando c’erano obiettivi fascinosi probabilmente vi era un concetto di montagna da scalare. Oggi mi sembra che si sia persa la fattibilità, prima che il gusto, di conseguire step pregiati. Sono aumentati i pit stop obbligatori: la riforma universitaria del 3 +2, e i traguardi tagliati (lauree, master), eppure sembra che adulti non siamo chiamati ad esserlo, per certi versi è una situazione che fa comodo anche a noi, se non fosse che ad un tratto ci ritroveremo catapultati in uno status in cui molti vizi non sono più permessi e c’è chi con la proposta meno attraente sceglierà chi farci essere. Viaggiamo a bassa quota nei nostri progetti e così priviamo l’intera società del nostro vigore, con aspettative e grinta low cost. Ci è richiesto di trascorrere il nostro tempo nel modo più goliardico, ci si annoia meno a lavorare che a divertirsi sentenzierebbe Pavese: “non lavorare stanca”. Possibile che le nostre energie non debbano essere messe a frutto? Paradossalmente salvando dallo sfruttamento minorile condanniamo al disagio giovanile. Anche perché è sempre più estesa l’idea di minore e di giovane. Oggi abbiamo una Italia con la pensione alta e un’Italia con la …pressione bassa. Ma ne vedo un’altra, fondata sul lavoro, che nella costituzione legge “diritto allo studium”; perché ha il desiderio tra i suoi ingranaggi. Ha gli ardori giovanili come interruttore. Proliferano corsi di laurea per inseguire la specializzazione ma la domanda di lavoro continua a “chiamare” alla vecchia maniera. (Secondo lo “Statuto dei favori e doveri dei cittadini”, articolo 1 comma 4: tenere sempre i potenti vicini non si sa mai possa servirti qualcos’altro). Persino il dottorato di Ricerca è un compromesso spesso con altre prestazioni che si danno al sistema, e la ricerca del “padrino” dilata i tempi delle Ricerche accademiche vere, gente che ha dovuto tacere anni di lavoro massiccio perché nessuno verifica. Prima o poi i più tenaci verranno risarciti, anche con concorsi ad hoc; ma chi l’ha detto che per la società sia stato “a costo zero”? Non si riesce ad immaginare i giovani come “classe dirigente”; sono pieni di titoli di studio che i genitori non hanno, ma nessuno crede loro titolati e così ambiscono solo a stage e lavoretti concepiti a tasso zero di crescita personale. Serve una introduzione nel mondo del lavoro di grinta, più che di semplici esecutori ad ore. Il problema è quella tendenza tutta italiana di offrire lavori a basso impatto intellettivo, con un rientro di stabilità emotiva per chi gestisce i collaboratori, quindi, di lenta innovazione. Oggi chi dirige ha compensi spropositati, vedi politici, direttori di aziende come Telecom, Alitalia ecc; se sei un giovane puoi far carriera solo nel calcio; dove altro trovate venticinquenni schierati a guidare l’Italia? Perché poi il potere e i soldi vanno di pari passo; almeno ci concedessero la possibilità di “esercitare la professione” di intellettuali, di dirigenti senza portafogli. Io credo che più che squattrinati i nostri trentenni siano depotenziati, disarmati di efficacia, impotenti anziché in potenza. Paradossalmente la posizione man mano che ci si allontana dallo status di studente tende a precipitare in tale direzione, perché la rivoluzione copernicana ha portato finalmente questi al centro dell’Università, ma una volta scattata la laurea inizia la periferia. Quale sarebbe la faccia degli esaminatori se ad un concorso per docente di seconda fascia si presentasse, in Italia, un mio coetaneo? Eppure se l’Università è il primo datore di lavoro che li snobba come può pretendere che la fiducia gliela diano le altre aziende? Scelte non catalogabili sul merito. Sempre che il saper pazientare da portaborse non sia stato eletto a valore sociale. A chi giova il nostro temporeggiare precari davanti le famose “porte girevoli”? quelle per cui basta aspettare. L’entrata d’accesso per la mediocrità. No, grazie.


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