Il Commissario europeo Olli Rehn ha espresso preoccupazioni per gli effetti della stabilità politica in Italia sul programma di “aggiustamento fiscale” nel nostro Paese e le implicazioni a domino sul resto dell’unione monetaria. Sono molto maggiori le preoccupazioni per la stabilità politica in Germania, dove il 22 settembre si va alle urne.
La Repubblica Federale Tedesca ha oggi nel contesto europeo una situazione analoga (e parimenti scomoda) a quella della Germania di Bismarck: da un lato, è così importante e “pesante” che qualsiasi cosa avvenga all’interno dei suoi confini si riverbera sul resto del continente; non ha però la capacità economica e finanziaria di prendersi carico di tutti i problemi dell’Europa (debito sovrano, disoccupazione, ritardi strutturali di alcuni Paesi della stessa Eurozona).
La campagna elettorale in corso è molto combattuta. Se il partito guidato dalla Cancelliera Angela Merkel non vince o non riesce a formare la coalizione (o con i liberali o con i socialdemocratici), un eventuale coalizione rosso-rossoscuro-verde e giallo (tale da raggruppare i socialdemocratici con i verdi e gli altri partiti della sinistra), nascerebbe sotto il segno della precarietà e dell’instabilità. Una Germania instabile dovrebbe fare paura a tutta Europa molto più di un’Italia con un Esecutivo fragile.
In uno dei primi numeri di Formiche, nel settembre 2005, analizzavo da Berlino (allora insegnavo in un seminario a Potsdam) i risultati ancora non ufficiali delle elezioni che avrebbero portato alla “grande coalizione” nel modo seguente.
Non che in Germania non si avverta il “Wechseltimmung” (“desiderio di cambiamento”). Lo sentono, e lo hanno fatto proprio, principalmente le imprese che hanno sostenuto, forse in maniera troppo aperta e vociferosa, la campagna elettorale della coalizione guidata da Angela Merkel . È anche sulla pelle dei disoccupati, il cui numero è cresciuto a 5 milioni (1, 5 milioni in più rispetto a tre anni fa) e di tutti coloro che, a torto o a ragione, si considerano “socialmente esclusi” (nonostante le tutele del welfare) ed hanno dato un’affermazione inaudita al partito della sinistra radicale.
Il “Wechseltimmung” non è ancora però abbastanza forte da indurre a cambiare obiettivi e rotta. Anche in caso di vittoria netta dello schieramento guidato da Angela Merkel, i forti contenuti innovativi del programma dei cristiano sociali e dei liberal democratici avrebbero avuto senza dubbio difficoltà in Parlamento poiché molti degli eletti di questi stessi partiti sono ancorati alla Germania di un welfare con radici ultracentenarie (risale al sistema di assicurazioni sociali creato alla fine del diciannovesimo secolo). Il “Wechseltimmung” ha conquistato economisti (specialmente quelli dell’Istituto di economia internazionale di Amburgo) ed intellettuali , ma non ha scosso la quercia ben radicata, non ha affascinato gli elettori. Essi hanno acquistato soltanto l’opzione di poterlo comprare domani, dopo averne ulteriormente approfondite e sperimentato le ramificazioni. Hanno, quindi, preso un “derivato” – ovviamente a prezzo scontato tale da tenere conto dell’incertezza del futuro e della volatilità delle stesse forze politiche e sociali.
Il “derivato” sarebbe stato la “grande coalizione”. Oggi se fossi tedesco voterei a favore di Frau Merkel. Da europeo non posso che sperare nella sua vittoria (o da sola o in coalizione). È il leader politico che ha le idee più chiare sul ruolo dell’Europa del mondo: “l’Unione Europea (UE) ha il 7% della popolazione mondiale, il 25% della produzione di beni e servizi ed il 50% della spesa sociale”. È anche quello che ha il programma più chiaro di correzioni positive dell’unione monetaria; viene dai suoi uffici l’idea di quella “unione bancaria” che è logicamente il contrario di quanto previsto nel Trattato di Maastricht. Ha continuato ed approfondito la modernizzazione della Repubblica Federale iniziata dal suo predecessore, Gerhard Schröder, con il quale ha un punto in comune importante. Lei, figlia di un pastore protestante in un Land orientale, è donna di scienza, sposata con uno scienziato (con cui vive non alla Cancelleria ma in un appartamento di tre stanze nel quartiere “Mitte” di Berlino-centrale ma non lussuoso). Lui, orfano di guerra, ha lavorato in una fabbrica di ceramica prima di laurearsi in giurisprudenza, diventare avvocato senza mai praticare davvero la professione per entrare in politica. Ambedue hanno una formazione scientifica (nel caso di Schröder un apprendistato scientifico), come peraltro molti tedeschi a ragione del sistema d’istruzione “duale” che prevede, sin dalle secondarie, lunghi periodi in azienda.
Dalla fine degli Anni Novanta prima con la guida di Gerhard Schröder poi con quella di Angela Merkel, la Germania ha ristrutturato profondamente l’economia reale, rispondendo positivamente alla perdita del monopolio del progresso tecnologico di cui per due secoli hanno fruito Europa e Nord America. Ciò non vuol dire che la Germania abbia risolto tutti i propri problemi. L’Ocse la considera come il Paese industriale e a reddito che, con il Lussemburgo, rischia di avere la crescita di lungo periodo (i prossimi cinquant’anni) più bassa. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per continuare la propria modernizzazione e favorire quella del resto dell’UE.
Frau Merkel ha presentato programmi su questi punti. Così ha fatto anche il leader socialdemocratico Peer Steinbrück, che è stato un bravo Ministro delle Finanze ai tempi della “grande coalizione”.
Ho serie difficoltà, però, a vedere Peer Steinbrück alla testa di una aggregazione variopinta di partiti in gran misura risultanti dalla scissione della SPD. E oggi l’Europa necessita come non mai di una guida salda che può venire solo da una Germania stabile ed in cui prevalga il “Wechseltimmung”.