I due gemelli, quello asiatico e quella europeo, sono talmente simili da risultare drasticamente diversi.
Sono talmente simili che la storia dei loro surplus si può raccontare con le stesse parole: taglio dei salari, svalutazione competitiva, accesso a un mercato ampio, accumulazione di saldi di conto corrente, crescita delle riserve e degli asset esteri fino al (parziale) redde rationem provocato dalla crisi internazionale.
E tuttavia risultano drasticamente diversi. Il gemello europeo, la Germania, ha finito col surclassare quello asiatico, mentre la Cina, che spaventava e affascinava il globo con il suo Pil al 14% e il saldo di conto corrente al 10%, deve contentarsi di inseguire l’ombra di se stessa, augurandosi una crescita di “appena” il 7,5% e un saldo di conto corrente che si restringe della metà.
Sono talmente diversi che la Cina, finisce col perdere ogni anno soldi sul lato dei redditi della bilancia dei pagamenti (-4% nel 2012) malgrado la posizione netta dei suoi investimenti all’estero sia ampiamente positiva per quasi un trilione di dollari . Al contrario della Germania, che dai suoi investimenti esteri spunta almeno un 5% l’anno.
La crisi, poi, ha giovato assai più alla Germania che alla Cina.
Com’è possibile?
Entrambe sono vittime del loro successo. Solo che la Cina, pure se non sembra, è un paese emergente, quindi finanziariamente represso e produttore di quantità a basso costo. Mentre la Germania è un gigante finanziario che produce qualità ad alto costo.
Non è una differenza da poco.
Si scopre molto di più leggendo l’epopea dei due paesi raccontata in un illiminante paper della Bri, “Global and euro imbalances: China and Germany”. Si scopre la storia dei loro surplus gemelli, figli di deficit altrettanto gemelli: quello americano, per la Cina, e quello innanzitutto europeo, per la Germania. E soprattutto si scopre come un percorso simile possa condurre a direzioni affatto differenti.
Ciò non toglie che Cina e Germania siano davvero quella “coppia da sogno” di cui parlò il primo ministro cinese nella sua visita di stato a Berlino. A patto però di non andare troppo per il sottile. Ossia di mettere l’accento su ciò che i due paesi hanno davvero in comune: il loro stato di grandi creditori internazionali, interessati innanzitutto a difendere il valore dei propri investimenti.
Un’occhiata ai numeri aiuterà a capire.
Il picco degli squilibri globali il mondo l’ha toccato nel 2006, prima quindi della grande crisi, arrivando a toccare il 2% del Pil mondiale. Quasi la metà di questo surplus, ai quali ovviamente corrispondevano altrattenti deficit (a cominciare da quello americano), era in mano alla Cina. Al secondo posto nella classifica dei creditori c’erano la Germania e poi il Giappone. Tale situazione deriva da storie differenti.
La Germania ebbe un momento di deficit sul finire degli anni ’80, quando investì i suoi abbondanti surplus accumulati dal dopoguerra in poi, per finanziare la riunificazione. Solo dal 2000 in poi il conto corrente tedesco tornò in surplus, favorito dalle riforme messe in campo e “dall’avvento dell’euro”. Nel 2012 “malgrado gli aggiustamenti dei deficit nel resto del mondo, il surplus tedesco era il più grande del mondo”.
La Cina ha iniziato ad accumulare surplus più di recente. Nel 2007 arriva a toccare il 10% del Pil nazionale e lo 0,7% del Pil mondiale, ma nel 2012 si riduce al 2,3% del Pil nazionale a allo 0,25% di quello mondiale.
Ne risulta che il surplus accumulato dalla Germania ha superato quello cinese, sia in termini di dollari che in termini di quota del Pil mondiale. Addirittura, il surplus tedesco è quasi tre volte superiore di quello della Cina, in relazione ai rispettivi Pil. al prezzo però di una crescente dipendenza dell’economia tedesca dall’export.
Sull’origine di questi surplus, gli studiosi della Bri hanno pochi dubbi. “Le riforme domestiche in Cina e Germania hanno avuto l’effetto parallelo di restringere i salari, conducendo a un costo del lavoro stabile, facendo salire la quota di ricchezza a vantaggio dei profitti. Entrambe le economie hanno goduto dei vantaggi di una maggiore integrazione internazionale. La Cina entrando nel WTO, la Germania nell’eurozona. I tassi di cambio hanno diminuito il surplus cinese può di quello tedesco”.
In particolare, le riforme sul mercato del lavoro “hanno avuto effetti simili, aumentando l’offerta effettiva di lavoro”. Ma i benefici di tale politica “sono andati ai profitti”. “La conseguenza – scrivono – è stata che i costi unitari del lavoro sono rimasti stagnanti o sono diminuiti dalla fine degli anni ’90 alla metà degli anni 2000″.
“Con l’introduzione dell’euro – sottolinea la Bri – l’evoluzione del costo unitario del lavoro ha determinato la competitività delle economie dell’eurozona”. E i dati mostrano come “in Germania tali costi siano diminuiti mentre negli altri paesi siano aumentati”.
L’origine del successo, quindi, sta nello spostamento di una quota della ricchezza nazionale dai salari ai profitti. Ciò ha aumentato notevolmente la capacità di risparmio delle imprese che però non ha condotto ad un uguale incremento degli investimenti.
In Cina questo gap è meno pronunciato. Le due curve infatti, quella della crescita dei risparmi nazionali e quella della crescita degli investimenti hanno un andamento simile. Mentre in Germania tale differenza è assai più pronunciata. La curva degli investimenti è molto più distanziata da quelli dei risparmi, ponendosi la prima (2011) a circa il 18% del Pil a fronte di risparmi per il 24%. Questo gap spiega l’accumularsi del corposo surplus di conto corrente. Il risultato è stato che “il frutto della moderazione salariale non è stato investito all’interno, ma ha messo le base per l’accumulazione di asset esteri”.
La Germania quindi, assai più della Cina, che specie dal 2008 ha speso molto all’interno per sostenere la domanda e il calo dell’export, è diventata un’esportatrice netta di capitali.
La questione dei tassi di cambio non è meno importante.
Negli ultimi 15 anni, il tasso nominale e reale del renminbi cinese si è apprezzato, rispettivamente, del 50% e del 70% rispetto al dollaro, e ciò ha contribuito notevolmente alla riduzione del surplus cinese dal 2007 in poi.
Al contrario, nello stesso periodo il marco tedesco (prima) e l’euro tedesco (poi) si son rivalutati del 15% in termini nominali, ma “a causa dei bassi prezzi al consumo, in realtà si è indebolito di più del 15% in termini reali. A partire dalla metà degli anni 2000 il tasso reale tedesco si è deprezzato. Il tasso reale e nominale si è apprezzato solo a partire dal 2012-13″.
Assodata l’origine delle fortune sino-tedesche (comprese le questioni di cambio), è interessante vedere come questi due paesi le abbiano investite. E già qui emerge netta la prima differenza. QUella cinese, infatti, è un’economia pianificata, quindi fortemente sbilanciata nei confronti dello stato, mentre quella tedesca è un’economia capitalista pura. Da ciò ne deriva che la posizione degli investimenti internazionali della Germania è diventata la terza più grande nel mondo dopo quella di Usa e Gran Bretagna, mentre la Cina, che pure è diventata la seconda economia nel mondo, ha una posizione degli investimenti internazionale molto minore.
Come quota del Pil, gli asset esteri della Germania sono cinque volte quelli della Cina, soggetta peraltro a pesanti restrizioni sui movimenti di capitale.
E tuttavia, in termini assoluti di dollari, la posizione estera cinese, super di parecchio quella tedesca, ponendosi,a fine 2012, a oltre 1,7 trilioni di dollari a fronte di 1,4 trilioni per la Germania: “Cina e Germania sono diventati il secondo e il terzo creditore del mondo dopo il Giappone”. Ma se guardiamo i dati in relazione al Pil, vediamo che, dall’emergere della crisi in poi, la posizione estera cinese è andata diminuendo gradualmente a differenza di quella tedesca, che continua a salire sostenuta a largi surplus di conto corrente.
Tale differenza si spiega anche notando come siano differenti le politiche dei due stati. La Cina ha accettato investimenti diretti dall’estero (quindi debiti), mentre ha acquisito asset sicuri (per lo più americani) con i suoi investimenti di portafoglio. La Germania ha comprato, tramite le sue banche, azioni e bond nel resto del mondo per una quota stimata fra il 40 e il 60% del totale dei suoi investimenti.
Interessante notare come l’allocazione degli asset esteri (e dei debiti) sia mutata nei due paesi con la crisi.
La Cina, fra il 2007 e il 2011, ha più che raddoppiato le proprie riserve, sul lato dell’attivo, e gli investimenti diretti nei suo territorio sul lato del passivo, mentre gli investimenti di portafoglio sono rimasti stabili.
La Germania, fra il 2007 e il 2012, ha aumentato le proprie riserve, ha visto aumentare gli investimenti di portafoglio dall’estero (in virtù della sua reputazione di “Safe heaven”) e sull’estero, mentre i suoi investimenti diretti sono rimasti stabili, sia sul lato dell’attivo che su quello del passivo.
Ma quello che i numeri non dicono è ancora più interessante. Fra il 2010 e il 2012 le banche tedesche, spaventate dalla crisi dell’euro, hanno tagliato i propri investimenti sui titoli di stato dei PIGS. Si calcola che tale rientro di capitali abbia pesato 300 miliardi di euro fra il 2008 e il 2012. Tale rientro di capitali ha innescato il noto credit cruch del mercato interbancario, costringendo le banche dei paesi che avevo visto sparire i fondi delle banche tedesche a compensare i fondi mancanti con quelli dell’Eurosistema. Ciò ha provocato che la Bundesbank è diventata il più grande creditore dell’eurosistema.
Non è una differenza da poco. Quello che prima era un rapporto fra privati, banche tedesche verso banche spagnole, ad esempio, è diventato un credito fra un’entità pubblica (la Bundesbank) e le banche spagnole, mediato dalla banca centrale spagnola. “Il risultato è stato un’evoluzione dell’esposizione tedesca nei confronti del mondo in stile cinese. Quello che era un credito privato è diventato pubblico e come risultato il settore federale pubblico tedesco ora pesa circa il 15% del totale degli asset esteri della Germania”. Prima era circa il 5%.
Conclusione: la crisi ha provocato una crescita della presenza del settore pubblico negli investimenti esteri di entrambi gli stati, che corrisponde di fatto a un aumento del rischio a carico del pubblico a vantaggio del privato.
La famosa socializzazione delle perdite.
Ma è ancora più interessante vedere che benifici porti ai due gemelli diversi una così ampia collezione di asset esteri.
Quella della Cina, scrive la Bri, “è lo specchio della posizione degli Usa”. Gli investimenti diretti degli Usa in Cina hanno generato corposi rendimenti per gli americani, con la conseguenza che i redditi da investimenti esteri degli Usa sono diventati positivi malgrado l’aumento dei debiti esteri. In sostanza, la Cina paga un rendimento per il trilione di dollari di investimenti diretti che ha attratto sul suo territorio che è superiore al rendimento che ricava dalla gestione del suo 1,8 trilioni di investimenti all’estero.
Un raro caso di ricco che perde soldi a favore del “povero”.
E infatti il saldo dei redditi delle partite correnti è costantemente negativo. Salvo nel 2008-2009, qando il flight to quality verso i titoli Usa fece scendere i tassi americani e quindi aumentare il valore dei titoli Usa in mano ai cinesi. Ma è stato solo un attimo. Nel 2012 il saldo degli investimenti cinesi era negativo per il 4% della posizione netta.
In Germaia, al contrario, il rendimento degli investimenti esteri è sempre positivo. Si è contratto dal picco del 9% registrato nel 2005 a un sempre rispettabile 5-6%.
Ma anche su questi tesoretti, il cambio ha avuto una siginficativa influenza. La rivalutazione del renminbi sul dollaro ha sconquassato la posizione estera dei cinesi, visto che gli asset sono denominati in dollari (che si è svalutato) e i debiti in renminbi (che si è rivalutato). “Se stimiamo in maniera conservativa – scrive la Bri – che il 10% degli asset internazionali cinesi sia in renminbi, l’esposizione lunga sul dollaro sarebbe il doppio della posizione netta nel 2012″. Insomma: una montagna di soldi investiti in dollari. “Su queste basi – calcola la Bri – la rivalutazione del renminbi sul dollaro dal 2005 in poi potrebbe rappresentare una perdita di 7 trilioni di renminbi, equivalente al 14% del Pil 2012″.
Ciò aiuta a capire perché la Cina vuole un nuovo sistema monetario.
Ma se la Cina piange per colpa degli americani, neanche la Germania ride. La discrepanza fra i flussi dei capitali andati all’estero e lo stock di asset contabilizzati supera i 400 miliardi di euro. Dal 2002, quando il conto corrente è diventato positivo, la Germania infatti ha raggranellato 1,4 trilioni di surplus correnti a fine 2012, a fronte dei quali sono stati calcolati deflussi verso l’estero per 1,5 trilioni. Senonché la posizione netta sugli investimenti è passata dagli 0,1 trilioni del 2002 a 1 trilione di euro nel 2012.
Dove sono finiti i 400 miliardi che mancano?
Alcuni studiosi parlano di “cattivi investimenti all’estero” o di “investimenti spazzatura”. La Commissione europea punta l’indice sugli investimenti sballati in mutui subprime americani. Si stima che almeno 42 miliardi di dollari di asset tedeschi siano stati bruciati in titoli tossici Usa “ma potrebbero essere anche il doppio o il triplo”, scrive la Bri, o bond dei paesi sovrani dell’Europa del Sud.
Quello che è certo è che anche la Germania ha dovuto soffrire pesanti perdite a causa della crisi provocata dagi americani.
Ciò aiuta a capire perché i due gemelli diversi – entrambi grandi creditori – potrebbero convergere verso azioni comuni verso il Grande debitore americano.