Solo una sana e consapevole unione fiscale salva l’euro dallo stress e dall’azione statale. E grazie alla crisi questo miracolo ormai è in vista.
Eccola qui la morale di un robusto studio presentato dal Fondo monetario internazionale che si intitola “Toward a fiscal union for the euro area”, che è un po’ un bignami di tutto quello che abbiamo letto e sentito in questi ultimi anni e anche un possente documento di analisi destinato di sicuro a trovare udienza benevola sui tavoli della politica europea, compresa la nostra, ammesso che trovi il tempo di occuparsi di qualcosa che abbia un senso.
Meglio perciò leggerlo, almeno sappiamo cosa ci aspetta.
“La crisi – scrive il Fondo – ha rivelato un gap critico nell’UEM: la capacità degli shock subiti da un singolo paese di propagarsi in tutta l’eurozona, mettendo in discussione anche la moneta unica”.
L’avreste mai detto?
Da qui la domanda: una più profonda integrazione fiscale può servire a correggere la debolezza dell’architettura europea?
Voi che dite?
Il Fondo osserva che sono già stati fatti alcuni passi in questa direzione. Ma, suggerisce, è il momento di fare qualcosa di più.
Prima di arrivare alla prognosi, tuttavia, è utile andare a vedere la diagnosi. Non tanto perché il Fondo dica qualcosa di nuovo, ma perché ribadisce concetti anche ancora oggi faticano ad affermarsi nel nostro dibattito economico. Quello politico sul tema, semplicemente, non è pervenuto.
“La crisi ha rilvelato che il debito sovrano può essere prezzato a un livello fuori mercato, e che gli stati possono persino perdere l’accesso a tali mercati, mentre il costo dei prestiti ai privati può variare notevolmente malgrado l’Unione monetaria. Inoltre ha mostrato come il contagio può diffondersi fra gli stati”.
In pratica la crisi ha dimostrato che l’unione monetaria, per come dovrebbe funzionare in teoria, semplicemente non esiste.
Ancora peggio, la crisi ha mostrato che quello che l’Uem avrebbe dovuto garantire, ossia la convergenza dei redditi dei paesi dell’area, non si è mai verificata. Al contrario, ”la divergenza all’interno dell’eurozona non è declinata con l’introduzione dell’euro.
Ma questo lo sapevamo già.
Così come sapevamo che l’unica forma di convergenza raggiunta grazie all’euro è stata quella sul ribasso dei salari per gran parte dell’area.
Quello che non sapevamo prima di leggere l’analisi del Fmi è che “mentre gli shock specifici al livello del singolo stato sono rimasti più prevalenti di quanto ci si aspettasse, l’alto livello di commercio e l’integrazione finanziaria ha creato il potenziale per sostanziali esternalità, aggravate da una governance fiscale debole e dall’assenza di un’effettiva disciplina di mercato”.
Traducendo vuol dire che l’Uem ha funzionato da amplificatore degli squilibri, anziché come fattore di riequilibrio.
Vi sembra strano?
Il motivo? “Rigidità del mercato del lavoro e dei prezzi”, visto che “a differenza di quanto ci si aspettava accadesse in un’area valutaria ottimale prezzi e salari hanno continuato a mostrare rigidità in molti paesi dell’area, e ciò ha provocato dei larghi squilibri interni nella zona che sono stati il cuore della crisi”.
Peraltro, la mobilità del lavoro “continua ad essere bassa a differenza di quanto accade in altre aree a valuta comune”, vuoi per motivi linguistici e culturali, vuoi perché, più prosaicamente, è impossibile portare con sé, quando si cambia paese all’interno dell’eurozona, il proprio bagaglio pensionistico o “i propri benefit di disoccupazione”. Tutta roba che, nel migliore dei mondi possibili, avrebbe dovuto essere affrontata prima dell’Unione, non dopo.
Quando la crisi è esplosa, si è visto che la frammentazione socio-economica-istituzionale dei paesi dell’area è diventata frammentazione finanziaria tout court. Sono arrivati gli spread, e con essi il rischio sovrano, prima, e quello della destabilizzazione finanziaria per via bancaria, dopo. La paura del contagio ha fatto il resto.
L’eurozona si è scoperta per quella che è: un gruppo di paesi dove tutto è diverso, tranne la moneta.
Uno straordinario bagno di realtà.
E anche costoso.
Il Fondo calcola che finora i paesi dell’euro hanno già speso 227 dei 390 miliardi previsti per i programmi di assistenza agli stati in difficoltà, quindi fra ESM, EFSF, EFSM e prestiti alla Grecia. Senza contare l’esposizione dell’Eurosistema per circa 1.200 miliardi tramite il bilancio della Bce e il sistema Target 2. L’Italia, per guardare a casa nostra, è esposta per circa 400 miliardi di debito nella pancia della Bce. La Spagna per altri 500.
Tale pratica, che ha avuto l’indubitabile vantaggio di far abbassare il costo del finanziamento per gli stati in difficoltà, ha generato quello che il Fondo chiama “trasferimenti impliciti” a favore di questi stati sostanzialmente a carico dei paesi creditori, stimati fra i 45 e i 76 miliardi l’anno per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna.
Questo spiega perché gli stati del Nord Europa siano così nervosi.
Allo stesso tempo, questi trasferimenti impliciti mostrano con chiarezza che c’è già un meccanismo di socializzazione dei debiti.
Perché allora non andare oltre?
Infatti per riparare il giocattolo difettoso, l’Ue ha messo mano a una serie di strumenti che vale la pena riepilogare (sempre perché è utile sapere cosa ci aspetta).
A dicembre 2011 è stato approvato il Six pack, un pacchetto di norme votato al rafforzamento della governance fiscale nella zona, seguito, un anno dopo, dal Fiscal compact, già ratificato da 15 paesi dell’eurozona, e poi c’è il Two pack approvato dal parlamento europeo a marzo scorso che dovrebbe entrare in vigore nel 2014.
Una volta o l’altra andremo a vedere che c’è scritto in queste norme. Per adesso contentiamoci di sapere che servono, o dovrebbero servire, a dare una maggiore disciplina fiscale agli stati dell’euro.
Non finisce qui. La parte del leone, in questo momento, la sta facendo l’Unione bancaria, per la quale il Fondo tifa senza mezze misure, che abbiamo già visto essere il prodromo necessario per arrivare all’unione fiscale. Nell’arco dei prossimi 18 mesi, poi, il Fondo si aspetta che la Commissione Ue metta a punto il “Convergence and competitiveness instrument” per promuovere ex ante un maggior coordinamento fra gli stati e maggiori riforme strutturali.
Tutta questa roba, sottolinea il Fondo, si può fare i tempi ravvicinati e, soprattutto, senza modificare i trattati.
Nel medio termine, quindi fra la fine del 2014 e il 2017, dovrebbero raggiungersi risultati ben più ambiziosi, che però richiedono il cambiamento dei trattati.
In particolare, un “controllo più forte sui bilanci nazionali, compreso il diritto per il centro (l’Ue) di richiedere cambiamenti nelle decisioni fiscali nazionali; una capacità fiscale centrale, con risorse dedicate; la possibilità di prendere a prestito in solido, vale a dire creare un fondo di rimborso europeo per coordinare la riduzione del debito pubblico; emettere eurobills per favorire l’integrazione dei mercati finanziari”.
Quindi il monito: “Il contesto di governance deve essere implementato rigorosamente, con un forte rinforzo dei poteri del centro”.
Alla fine del documento, fra le note tecniche, il Fondo scrive un bellissimo paragrafo che si intitola “Lezioni per l’eurozona” che leggo con avido interesse.
Scopro che:
1) La condivisione del rischio fra i paesi deve essere accoppiata con una robusta governance del centro. Mettere i debiti in comune significa anche mettere in comune la capacità di gestire le finanze pubbliche. Che poi è il senso dell’Unione fiscale.
Quindi più Europa.
2) Bisogna migliorare il set istituzionale degli strumenti europei per risolvere eventuali crisi sovrane. Processo lungo che, almeno nella fase attuale, “deve essere imposto più direttamente dal centro”.
Quindi più Europa.
3) La transizione è uno dei risultati della crisi. La storia mostra che gli episodi di stress fiscale sono spesso il primo passo per un ribilanciamento dei poteri verso il centro (l’Ue). Le crisi hanno offerto l’occasione per una transizione verso meccanismi più stabili nelle aree a valuta unica. La crisi corrente offre all’eurozona una simile opportunità.
Quindi più Europa (grazie alla crisi).
La lezione è che dobbiamo sperare che la crisi ci conduca a un’Europa più forte e stabile.
Viva la Crisi.
Viva l’Europa.