Chi ha più soft power nel mondo?
Chi è in grado cioè di influenzare gli Stati attraverso l’esercizio persuasivo della diplomazia, gli scambi e la produzione culturale, l’auto-rappresentazione mediatica, il modello politico e l’attrattività della propria economia?
Abbastanza a sorpresa non è Washington, ma Londra.
Lo studio
La risposta la dà l’ultima edizione di “The New Persuaders”, realizzata da Jonhatan McClory dell’Institute for Government (IfG) in collaborazione con la rivista Monocle.
Partendo dagli studi pionieristici di Joseph Nye, che nel 1990 definì per primo il concetto di soft power, il Barometro IfG-Monocle individua cinque categorie (istruzione, diplomazia, sistema di governo, cultura, innovazione & business).
Tra i parametri oggetto di valutazione, interessante notare come venga inclusa la cucina, il design, i brand e le icone dello sport e della moda.
Potrebbe essere una buona notizia per l’Italia, e invece no, perché nella classifica finiamo al 14° posto, 7 posti indietro rispetto al nostro Pil, classica misura di “hard power” economico.
Chi fa meglio (e peggio) del Pil
Fanno invece molto meglio del Pil una pattuglia di piccoli Stati europei capeggiata dalla Svezia (5°), seguita da Danimarca (7°), Svizzera (8°) Norvegia (12°) e Finlandia (13°), tutti piazzati nei primissimi posti per le categorie sistema di governo e business/innovazione.
Lontanissima dal suo ranking è invece la Cina, seconda potenza economica mondiale e addirittura ventiduesima nel barometro del Soft power (a causa soprattutto della governance politica e dei diritti individuali), nonostante miglioramenti nei settori istruzione e cultura, dove è rispettivamente al 5° e 6° posto.
Ma la rivale per l’egemonia nell’Asia-Pacifico, gli Stati Uniti, in queste categorie è saldamente al primo posto.
Chi vince a mani basse è, come detto, la Gran Bretagna, che ha superato Washington, prima nella precedente edizione. Londra è nella top-ten di tutte le categorie, con l’eccezione del sistema politico.
Britannia rules (again)
Sembrerebbe dunque che la sua forza attrattiva risieda in fattori sociali “naturali” più che in una consapevole capacità politica.
E tuttavia l’aspetto geopolitico è integrale a qualsiasi valutazione di potenza da parte britannica, anche e soprattutto nella forma della green diplomacy che vede il governo Cameron alla guida della lotta al cambiamento climatico e per la transizione low-carbon.
La lezione è forse che il vertice politico inglese riesce a interpretare l’aspetto trasformativo del progresso in modo meno tecnocratico (e con qualche ansia “apocalittica” in meno).
Una bella consolazione per lo stesso Cameron, che si è visto aggredito dalla stampa di casa per quello che viene definito “scivolone”, il mancato appoggio incondizionato agli Stati Uniti sulla Siria. Eppure intervenire militarmente è proprio un segnale di debolezza e di mancanza di sufficiente soft power, cioè di capacità di influenza generale.
Per l’Italia, infine, c’è molto da fare, senza però buttarsi troppo giù: oltre alla cultura (7° posto) possiamo fare un qualche affidamento sulla nostra influenza diplomatica, che ci colloca all’8° posto in una classifica guidata dal terzetto dei grandi dell’Unione europea: Francia, Gran Bretagna e Germania.