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Con il voto su Berlusconi la sinistra si sottomette alla magistratura combattente

Pubblichiamo la seconda parte di un saggio dello storico e giornalista Giovanni Di Capua. La prima parte si può leggere qui con il titolo: “Io, non berlusconiano, dico: Berlusconi ha ragione”.

La realtà politica nata dalle elezioni della XVII legislatura è che il governo “strano” di Enrico Letta non è dovuto a meriti né a volontà del Pd (di cui il premier era vicesegretario) ma, almeno per i quattro-quinti, ad un abile ragionamento, espresso con solare trasparenza da Silvio Berlusconi appena resi noti i risultati del voto ed essere stata accertata l’insorgenza di un tripolarismo (con coda di un quarto polino) che archiviava il bipolarismo in atto dal 1994.
L’ultimo quinto, formalmente decisivo, è opera di Giorgio Napolitano. Il quale – giusto per ricordare la cronologia degli eventi, che ha la sua valenza -, è a sua volta stato partorito nella mente di Berlusconi.

Pochi si chiedono se possa esistere una legalità politica ove manchi il paracadute dell’immunità. E se esista agibilità democratica ove qualcuno sia posto in condizione di disparità. È dalla scarsissima percezione del senso dello Stato di diritto che gli stessi media stentano ad evidenziare, che, dopo la condanna di Berlusconi, è derivato un clima da paese che giudica legale ciò che è pregiudizio autoritario e assurdo (rifiutare il diritto alla difesa) ciò che è proprio di un qualunque cittadino incappato in una sentenza discutibilissima.

C’è un punto dirimente sottolineato da Giuliano Ferrara (Che cosa pensare, che cosa fare, «Il Foglio», 20 agosto 2013) al quale nessun garantista, e persino qualche forcaiolo, può sfuggire: “Il voto parlamentare annunciato contro Berlusconi è un atto di piena e incontrollata sottomissione della sinistra (e del centro montiano) (altro errore fatale) alla magistratura combattente, alla logica di prepotere che il giudiziario ha ostinatamente voluto affermare in questi vent’anni stabilendo le sue alleanze, fiancheggiando partiti importanti, lobby editoriali e finanziarie e partitini mal messi, che hanno fallito il compito, come quelli dei Di Pietro e degli Ingroia“.

Michele Ainis, un intellettuale di sinistra che non si lascia incantare dalle sirene giustizialiste della nota lobby, né dal conformismo di un Pd che si ricompatta sull’antiberlusconismo, sul «Corriere della Sera» (13 agosto 2013), quotidiano pseudoterzista dal 1994 sistematicamente antiberlusconiano, avverte tutti che quell’irresponsabile “passo indietro della politica con la rinuncia all’immunità” prevede che, abolendo uno dei pochi strumenti di autonomia e di autodeterminazione, il parlamento si è da vent’anni precipitato in un conflitto dal quale esce sempre perdente: mentre «questa baruffa continuerà anche dopo, quando Berlusconi sarà uscito dal campo».

È appunto questa la quaestio maxima di cui si finge di non avvedersi. Ci si può benissimo sentire protetti da una semplice stabilità di governo. Se questa arrivasse, come con grande clamore si è richiesto pretendendo passi indietro obbligati di Berlusconi, si aspirerebbe ad uno sfaldamento del Popolo della libertà: con relativo trasformismo di parlamentari che abbandonano il fautore delle loro fortune personali e, in nome del loro innato “governativismo, transumano nell’accoglientissimo gruppo misto. Ma non avremmo un disegno politico di segno democratico. Dominerebbe il peggiore trasformismo antidemocratico.

Non si può procedere dimenticando che Letta è diventato presidente su altre basi ben più serie: su una necessità di pacificazione nazionale fra i due poli antagonistici del ventennio trascorso.
L’esecutivo Letta-Alfano è scaturito esclusivamente da una pattuizione politico-programmatica non al ribasso, chiamata a superare la crisi economica di provenienza straniera, senza ulteriormente penalizzare le strutture produttive e lavorative della nazione.
A parte l’accertamento del ricorso a due pesi e due misure da parte del manipulitismo, a seconda che esaminassero casi di esponenti del pentapartito o uomini del Pci e derivati, Giovanardi poté – mai smentito – calcolare che la percentuale dei “clamorosi buchi nell’acqua” collezionati dal pool milanese “si avvicina al 90 per cento dei casi”.

Purtroppo quella esperienza ha insegnato quasi nulla agli inquirenti e ai politici, dal 1994 al 2013. I primi hanno, anzi, perfezionato il loro avventurismo, scoprendo vari sotterfugi:
– il reato di associazione, un’autentica bufala giudiziaria e inesistente nei codici, ma ormai consuetudinaria;
– il principio del “non poteva non sapere”, persino acquisito in recentissime sentenze cassazioniste, da confliggere palesemente col principio civile della responsabilità personale;
– l’incuranza totale per l’accertamento della verità storica e del corrispettivo ricorso permanente alla tecnalità, una invenzione che obbliga il presunto reo a cavarsela solo se disponga di difensori di elevatissimo livello, bene introdotti negli scambi di favori con l’accusa e costosissimi per la quasi totalità dei cittadini, destinati a soccombere benché innocenti ed estranei ai fatti contestati; e talvolta non basta neppure essere ben dotati finanziariamente per sfuggire all’illegalità di certi giudici prevenuti;
– la superiorità dell’intoccabilità e della imperseguibilità del giudice rispetto alla difesa, a cominciare dai politici, che pazzescamente rinunciarono alle loro prerogative storiche.

Rivolgo due interrogativi che estendo a politici d’ogni provenienza: esiste, in queste condizioni reali dell’amministrazione della giustizia in Italia, una autentica legalità? Se la legalità è quella appena descritta, dov’è la giustizia e come può esercitare una difesa decente un cittadino qualsiasi, specie se innocente del reato attribuitogli?
Invocare la legalità è una mistificazione mediatica, meramente propagandistica. È diventato un comodo mantra per pretendere la resa dell’avversario; aggirare il nodo della quaestio maxima di cui parlavo.

Persino De Gasperi, ai tempi della sua maggioranza assoluta, meditava sulla grande importanza dell’alternanza: sono costretto a citare il mio De Gasperi e la democrazia dell’alternanza (Rubbettino, 2008), dove spiegavo che lo statista trentino, consapevole della limitatezza e comunque della non eternità di un voto cattolico compatto, come anche delle ambizioni legittime di potere tanto di minoranze democristiane che di formazioni laiche al momento alleate con la Dc, operava per salvaguardare il futuro della democrazia italiana assicurando agibilità politica e diritto di ogni forza democratica ad ambire ad una successione. Sempre, naturalmente, in certezza di democrazia e rifuggendo da manovre estranee alla politica, come lo scandalismo di sola denuncia moralistica o un giustizialismo per via giudiziaria di cui fu vittima l’inconsapevole Attilio Piccioni.

In un’Italia che è democratica solo perché è libera di andare a votare ma consente – senza reagire fieramente – ai tentativi impositivi di parlamentari prenominati da ristrette nomenclature di imporre un giustizialismo addirittura retroattivo, non si può assistere silenziosi ad un tale scempio della libertà e della democrazia. Non costituisce elemento di libertà e di agibilità politica cercare di chiudere la bocca non solo ad un capo di una grossa opposizione ma addirittura al capo del partito-pilastro di un esecutivo immaginato come strumento di riduzione dello spread e degli sprechi pubblici e di pacificazione nazionale.

È proprio la persistenza dell’azione ossessiva di quanti ricorrono all’imposizione per smantellare la persuasione che rende impossibile un recupero di cultura della libertà per una vera pacificazione nazionale. Anche al fine di dare anima all’alternanza come la concepiva De Gasperi ed è propria di altri sistemi occidentali. Quando la legalità si riduce a imposizione di un conformismo illiberale, finiscono col venir meno tanto l’agibilità politica che la democrazia dell’alternanza.
Penso, oltretutto, che, malgrado l’ottenebramento prodotto dai produttori di un pensiero unico, sia lecito – a chiunque creda che un ordinamento giudiziario sia necessario e non si riduca a mera sovrastruttura tecnica -, alzare la voce per evidenziare l’emersione di due questioni. La prima: la sentenza Mediaset non corrisponde al reato imputato a Berlusconi, che era insussistente, non gli era personalmente attribuibile e, al più, non aveva valenza penale ma semmai poteva considerarsi un illecito contravvenzionabile. Sul piano giuridico si può affermare che , da parte della Cassazione, c’è stato un «abuso di diritto».
La seconda questione: la retroattività che si vuole assegnare alla legge Severino.

Una delle pochissime voci fuori dal coro corporativistico cui l’Italia s’è ridotta, l’impareggiabile Piero Ostellino («Il Foglio», 21 agosto 2013), con quasi totale rassegnazione ricorda agli uomini liberi, laici e cattolici, che «la condizione culturale è miserevole»; vi sono editori «che non si pongono il problema del paese nel quale vorrebbero vivere» e giornaloni che si riducono «a dire al lettore solo ciò che si aspetta gli si dica». Sono parole amare, certo. Ma esse fotografano la triste situazione dell’Italia 2013; della sua realtà; della povertà morale di rappresentanze e istituzioni inadeguate al ruolo loto prefigurato che ogni uomo libero è costretto a riscontrare essere irrispettato senza persino poterle criticare. Ma in quale secolo privo di lumi e di capacità reattiva siamo precipitati?
Lo dico da vecchio militante che ha sempre rifiutato tanto la rassegnazione che il cinismo: uomini liberi d’Italia, sveglia!


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