Gli attenti sismologi finanziari, le cui letture deliziano gli appassionati, ormai da tempo hanno individuato la linea di faglia che si è aperta nell’eurozona. E vi stupirà sapere che non è al di qua delle Alpi, checché ne scrivano i nostri giornali, ma aldilà.
Non è l’Italia il pericolo dell’eurozona, ma la civilissima Francia.
La spaccatura, finora silente, è talmente pericolosa che qualora le due masse di eurolandia (quella cosiddetta core e quella periferica) venissero a frizione, l’energia distruttiva che ne verrebbe sprigionata potrebbe causare un pericoloso Armageddon capace di terremotare mezzo mondo.
Per capire quanto sia allarmante la situazione, basta scorrere un pregevole documento rilasciato dal Fondo monetario internazionale preparato in vista dell’incontro del G20 di qualche settimana fa e rilasciato di recente.
Il Fondo, che monitora con grande attenzione i rischi che agitano il mondo, ha compilato una lista di paesi i cui fattori interni generano e amplificano gli squilibri globali. E figuratevi quando ho scoperto che in questa lista l’Italia non c’è, a differenza della Francia.
Nell’eurozona, che nel suo complesso viene considerata un’area portatrice di squilibrio, la lista include la Germania (per motivi opposti alla Francia) e la Spagna. Fuori dalla zona euro ci sono la Gran Bretagna, un paio di Bric (India e Cina), il Giappone e ovviamente il Grande Squilibrato, ossia gli Stati Uniti.
Lasciando da parte gli altri pezzi grossi, la questione della Francia riveste un’importanza crescente. Il paese, infatti, si trova anche geograficamente sulla linea di confine fra la virtuosa Germania e i vituperati PIGS. Vive su un crinale pericoloso, spinta verso i Pigs dai suoi fondamentali economici, in costante peggioramento, e verso i paesi core dai suoi fondamentali politici. Il tanto celebrato asse franco-tedesco, frutto di un chiaro equivoco economico, si trova oggi di fronte al suo più autentico banco di prova.
Non è una novità. Francia e Germania avevano obiettivi diversi già all’epoca dell’inizio della costruzione europea. Ma tale nodo è rimasto celato nel corso dei decenni sull’onda dei fondamentali politici di cui parlavo prima. Francia e Germania hanno nascosto le profonde divergenze economiche puntando su una chiara convergenza politica rappresentata dall’Ue.
Solo che, prima o poi, tutti i nodi vengono al pettine. Specie in tempo di crisi.
Sarà per questo che nel rapporto del Fmi la Francia è la prima della lista dopo l’eurozona. “In Francia – scrive il Fondo – l’outlook per il debito pubblico è peggiorato e gli squilibri esterni si sono ridotti solo a causa della crescita debole”. Uno dei simpatici paradossi a cui ormai siamo abituati. “Un periodo protratto di crescita lenta – avvisa – potrebbe minare gli sforzi di consolidamento fiscale”. Perciò il Fondo invita la Francia a dare priorità alla riforme “per rinforzare la competitività e aumentare l’occupazione e la produzione”.
La ricetta, insomma, è sempre la solita. Quella che hanno già sperimentato con relativo successo in Spagna. Agire, quindi, innanzitutto sul costo del lavoro.
Un grafico elaborato dal Fmi mostra che tale ricetta sta già svolgendo i suoi effetti. Fatto 100 l’indice del costo unitario del lavoro basato sul tasso reale di cambio nel 2008, viene fuori che nell’ultimo quarto del 2012 tale indice quota 90 per la Spagna, il più basso del gruppo considerato. La Francia, malgrado l’indice sia sceso sotto quota 100 alla fine dell’anno scorso, è il paese col costo più alto, appena sopra la Germania e l’Italia. Quest’ultima, grazie probabilmente al crescente tasso di disoccupazione, sta al livello della Spagna a fine 2010. Quindi siamo ben avviati.
Ma il problema della Francia è che gli squilibri del paese sono insieme sul fronte esterno, quello fiscale e quello privato.
Per avere un’idea della situazione, basta attingere all’ultimo staff report del Fmi dedicato alla Francia e uscito ad agosto, quando tutti erano in ferie (ma di sicuro è un caso) che contiene i dati aggiornati della situazione francese.
Cominciamo dalla crescita, che il Fmi, con delicato eufemismo definisce “esitante”. Ma basta vedere il grafico dell’andamento del Pil reale per vedere che esitante rima con declinante. Fatto 100 l’indice del Pil nel primo quarto 2008, la curva francese è arrivata a 96 a metà 2009 per poi tornare in area 100 due anni dopo.
Da quel momento in poi la curva si è schiacciata senza mostrare alcun trend al rialzo, al contrario della Germania che ha guadagnato quota 102. L’Italia fa peggio della Spagna (94), trovandosi sotto quota 92. La media dell’eurozona è fra 96 e 98. Quindi la Francia sta sopra la media, ma solo perché la media è bassa.
Alla Francia, come a tutta l’eurozona, è mancata la spinta del consumo privato, gravato dal calo sofferto dai redditi, falcidiati dall’austerità, e degli investimenti. Il Pil si è salvato solo grazie al miglioramento dell’export e del consumo pubblico. La ricetta tedesca, insomma.
Senonché la ricetta rischia di essere indigesta. La correzione fiscale raggiunta dalla Francia nel 2012 non è servita a migliorare davvero il deficit “diminuito nel 2012 solo dello 0,5%, portandosi comunque al 4,8%, “lo 0,3% in più di quanto previsto dal Fmi nel precedente staff report”. Di conseguenza il debito/Pil è previsto in crescita, ben oltre il 90% del Pil. L’auspicio è che la correzione fiscale faccia effetto nel 2013. Dovrebbe pesare almeno l’1,8% del Pil per riportare il deficit sotto il 3%.
Questo in teoria. Perché in pratica, per riuscirci, il governo di Parigi dovrebbe seguire alcuni di quei consigli (riforma delle pensioni in testa) che la Commissione europea gli ha indirizzato durante l’ultimo assessment dedicato allo stato di salute dei paesi europei e che ha provocato l’acida reazione di Hollande che ha dichiarato, più o meno, che “nessuno può dire alla Francia quello che deve fare”.
Ecco il fondamentale politico che diverge dal fondamentale economico.
Se dal saldo fiscale guardiamo al saldo corrente, vediamo che è passato da un surplus del 2% nel 2000 a un deficit del 2,3% nel 2012, seguendo un andamento simile a quello della posizione netta degli investimenti, passati da un saldo attivo pari al 20% del Pil a un passivo del 20% del Pil. Tutto questo in un contesto declinante dell’export che “si riflette in una costante perdita di quote di mercato, sia a livello globale sia rispetto alla concorrenza”.
Ecco perché serve competitività.
Anche perché, a differenza della Germania, dove l’andamento del costo lavoro ha spostato quote di ricchezza dai salari ai profitti, in Francia ”la crescita reale dei salari è stata sostenuta a spese della quota di ricchezza destinata ai profitti”.
Questa è la vera differenza “politica” fra i due paesi. Per quantificare: il costo orario del lavoro in Germania è di 30 euro, in Francia sopra i 35, in Italia poco sotto 30 e in Spagna poco sopra 20 euro, compresi i contributi.
In questa partita l’andamento dei saldi fiscali farà la differenza. Il governo francese si è impegnato a diminuire le tasse sul lavoro, il cosiddetto cuneo fiscale, (che per la cronaca è quasi il doppio di quello italiano) al fine di ridurre il costo del lavoro di circa il 3% entro il 2015. Ma tale politica rischia di fallire se la correzione del deficit fiscale non andrà come previsto a causa della crescita “esitante”.
Insomma, il governo dovrà decidere dove trovare le risorse per finanziare gli sgravi contributivi, e dovrà farlo in un contesto di bilancio pubblico traballante con una spesa pubblica che si avvicina pericolosamente al 60% del Pil, un debito crescente e tasse insostenibili.
La faglia rischia di allargarsi parecchio.
Per questo il governo ha approvato, nel maggio scorso, una legge che va nella direzione di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. La norma però, nota il Fmi reca con sé alcuni dubbi, visto che “rimangono le incertezze circa l’effettiva implementazione per l’azione delle parti sociali e della magistratura”, visto che la legge deve essere attuata al livello aziendale e potrebbe esporre le aziende a contenziosi. Il problema che persiste, tuttavia, “è sul livello dei salari minimi” che rende difficile reclutare in maniera “competitiva” lavoratori poco qualificati e giovani.
Se dal settore reale (si fa per dire) passiamo a quello finanziario, leggiamo che “i rischi di stabilità sono stati abbattuti, ma la profittabilità delle banche è bassa e rimangono esposte per i finanziamenti all’ingrosso”.
Il miglioramento è avvenuto, almeno sul versante della liquidità, perché le banche francesi hanno diminuito la loro dipendenza dai finanziamenti a breve termine denominati in dollari e hanno iniziato a prendere i fondi in euro messi graziosamente a disposizione dalla Bce. Allo stesso tempo hanno messo in campo una corposa azione di deleveraging, accelerando la ritirata dai paesi a rischio per rimettere in carreggiata i propri coefficienti patrimoniali. E meno male. Perché le banche francesi, per dimensioni e interconnessioni, possono avere enormi effetti di contagio sul resto del mondo.
Il vantaggio dei tassi bassi (la Francia non soffre del mal di spread) ha condotto all’espansione del credito per mutui immobiliari e aziende, incentivando quindi la crescita del debito privato. Tale tendenza è stata sicuramente favorita dal livello di debito privato delle famiglie, che per quanto contenuto rispetto ad altri paesi europei, ha superato quota 90% del reddito disponibile, ma ha condotto a un abbassamento del tasso di risparmio, in calo nel 2013 e probabilmente nel 2014.
Senonché, tale facilità di credito porta con sé il rischio che abbiamo imparato a conoscere bene: quello della correzione dei valori immobiliari.
I prezzi francesi sono saliti parecchio negli ultimi anni. Se guardiamo il grafico dei prezzi reali, e fissiamo l’indice a 100 nel 1996, vediamo che nel 2012 l’indice vale circa 200, più o meno il doppio. Per far capire cosa significhi, serve un confronto con altri paesi. L’Italia al picco del boom non ha superato 150 e ora sta tornando di nuovo verso 100. L’Irlanda, che al picco è arrivata a 300, ora quota un po’ sotto 200. La Svezia è ben oltre 200 ,la Gran Bretagna da quasi 300 nel 2008 è scesa sotto 200.
Quindi la Francia sta nella fascia alta dei prezzi europei. Di conseguenza la sua esposizione al rischio di un calo immobiliare è più elevata. Il che, come è noto, crea notevoli sconquassi nei bilanci bancari.
Insomma: l’instabilità finanziaria uscita dalla porta può facilmente rientrare dalla finestra.
Anche perché lo stato ancora persistente di “safe-haven” che la Francia conserva nel panorama internazionale è un’ottima calamita per gli investimenti esteri di portafoglio, che nel 2012 hanno raggiunto l’1,7% del Pil. “La Francia – spiega il Fondo – sta svolgendo un ruolo di intermediario fra l’euro area e il resto del mondo. Gli afflussi dai paesi non Ue contribuiscono al finanziamento dei paesi dell’euro in deficit e i risparmi francesi vengono trasferiti ai paesi in deficit tramite il mercato interbancario”. Ciò spiega perché il sistema bancario francese sia così esposto all’estero, da un parte, e abbia così rilevante peso sistemico, dall’altra.
La faglia, oltre ad essere sempre più larga, perciò è anche molto profonda.
E va peggiorando in un momento non facile per il popolo francese, esasperato dalle tasse alte e ferocemente critico verso il suo presidente, che peraltro dovrebbe farsi carico di politiche alquanto impopolari, a dar retta al Fondo (e a Bruxelles).
Resta da vedere quanto si allargherà lo spread fra i fondamentali economici e quelli politici.
Questo è l’unico spread che spaventa la Francia.
E il resto del mondo.