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L’Internazionale dei banchieri centrali verso il sol dell’avvenire

Il riequilibrio (rebalancing) se mai ci sarà, dicono in molti, arriverà grazie all’Internazionale. Non mi riferisco alla prima Internazionale e neanche alla seconda. Tantomeno all’Internazionale comunista bolscevica o a quella socialista del secondo dopoguerra. Tutte costoro vagheggiavano, in forma più o meno rivoluzionaria, il trionfo del lavoro sul capitale, che comunque di per sé è una forma di riequilibrio.

La nuova Internazionale, ossia quella dei banchieri centrali, si propone un obiettivo assai più ambizioso: il trionfo del capitale sugli stati. In questo senso è assai più rivoluzionaria.

Ma a parte l’idea di arrivare al riequilibrio tramite una rivoluzione, le due Internazionali non potrebbero essere più diverse. La rivoluzione dell’Internazionale dei banchieri non è chiassosa come quella di marxiana memoria. Non urla: sussura. Non obbliga: suggerisce. Non minaccia con la crisi: difende dalle crisi. Soprattutto è tanto invisibile e opaca , e quindi rassicurante per i bravi cittadini, quanto quelle altre erano chiassose e manifeste, e quindi preoccupanti per i bravi cittadini.

Per scoprirla dobbiamo fare un salto indietro nella storia di quasi cent’anni e arrivare al 1929, quando i paesi vincitori della Grande Guerra si accordarono per dare attuazione al piano Young, che avrebbe sostituito il piano Daves, ossia il primo accordo per ottenere le famigerate riparazioni di guerra dalla sconfitta Germania. Il piano Young prevedeva una nuova formula per arrivare a riscuotere qualcosa dall’esausta Germania e in tale contesto, un anno dopo, nel 1930, venne fondata a Ginevra una società anonima per azioni, i cui azionisti potevano essere solo banche centrali o istituzioni finanziarie da esse deputate, che divenne mandataria delle potenze alleate per la riscossione dei pagamenti tedeschi e prese il nome dei Banca dei Regolamenti Internazionali.

Malgrado avesse sede in Svizzera, la banca non risultava soggetta alla giurisdizione elvetica, ma anzi le venne riconosciuto uno status internazionale che prevede tuttora diversi privilegi: è un’entità assolutamente autarchica che gode di ampie immunità estese anche al campo penale, salvo rinuncia dei diretti interessati.

L’alberello piantato a Ginevra crebbe silenziosamente senza dare nell’occhio. Attraversò quasi indenne il secondo conflitto mondiale grazie ai buoni uffici degli inglesi guidati da J.M.Keynes, che a Bretton Woods si opposero fermamente alla chiusura della Banca e riuscirono a convincere gli americani a ritirare la decisione, che pure era stata presa, di liquidarla.

Nel dopoguerra la Bri si mette al servizio della sua causa Internazionalista, come sempre in maniera silenziosa. Lavora sugli statuti, per rendere possibile l’adesione del maggior numero possibile di banche centrali europee, comprese quelle del blocco sovietico e si dedica a un volenteroso sostegno del sistema ideato a Bretton Woods, collaborando con il G10 per evitare le crisi valutarie che covavano sotto traccia già negli anni ’60.

Con la fine di Bretton Woods, segnato dall’abolizione della convertibilità del dollaro del 15 agosto 1971, la Bri cambiò pelle di nuovo e trovò la sua più autentica vocazione: la vigilanza bancaria e assicurativa. Forte di una ultraquaratennale esperienza, ci mise poco a diventare un’autorità in materia.

Ma la svolta avvenne nel 1974. Come sempre la finanza combinò uno dei suoi guai: fallirono alcune banche sistemiche in Germania (la Bankhaus Herstatt di Colonia, chiusa d’autorità dalla Bundesbank il 26 giugno), Gran Bretagna (la British-Israel Bank di Londra) e Stati Uniti (la Franklin National Bank di New York). Il panico che si scatenò di conseguenza fu il brodo di coltura ideale dove far germinare un’altra entità nel seno della Bri: lo Standing Committee on Banking regulation and Supervisory Practices, meglio conosciuto come Comitato di Basilea. L’iniziativa venne presa dalle banche centrali dei paesi del G10 su proposta della Banca d’Inghilterra.

Nasce così lo strumento di governo dell’Internazionale. Il suo verbo si innerva su una parola magica: regolazione finanziaria. Un termine tecnico che pochi capiscono, a cominciare dai politici, e ancor meno temono. Roba da banchieri e avvocati, che vuoi che sia.

Il Comitato, nei dieci anni successivi, si dà un gran daffare per individuare il supervisore nazionale delle pratiche bancarie e assicurative e separare le sue responsabilità da quelle del paese ospitante. In pratica, crea una rete  internazionale di interlocutori.

Sul finire degli anni ’80 arriva l’ennesima crisi, quella del debito dei paesi sudamericani. I paesi del G10 ancora una volta entrano nel panico e chiedono al Comitato di elaborare un sistema di misurazione del rischio di credito e di requisiti minimi di capitale per le banche da applicare a livello internazionale. Si arriva così, nel 1988, all’Accordo sul Capitale di Basilea, il papà di quello che oggi è conosciuto come Basilea II.

Possibile che la politica non abbia compreso che, in un mondo sempre più globalizzato e finanziarizzato, la regolazione diventa l’unico potere che conti davvero?

Evidentemente sì. O forse già da allora il governo ombra dei  tecnici, tutte persone comme il faut, parve loro la soluzione migliore per governare l’esplosione sotterranea dei costosi sistemi sociali messi in piedi nel dopoguerra che con sempre maggior chiarezza mostravano di essere insostenibili.

Sul finire degli anni ’90, quando scoppiò la crisi asiatica, si guardò naturalmente al Comitato di Basilea come unica autorità dotata di know how  e credibilità sufficienti per affrontare in maniera sistemica il tema della stabilità finanziaria.

Fu l’ennesima crisi, insomma, a far sì che l’approccio del Comitato, basato sulla cosiddetta soft law (quindi atti che non hanno forza di leggi, ma appaiono come raccomandazioni e suggerimenti) diventasse una vera e propria policy di governo.

Le conclusioni del Comitato, infatti, divennero la base, nel 1999, per l’azione dei paesi del G7 contro la crisi. Sempre i paesi del G7, al contempo, estesero tale approccio creando una nuova entità: il Financial Stability Forum, (FsF) una sorta di super Comitato di Basilea che diventa il pilastro centrale dell’Internazionale dei banchieri. La sua strategia si articola lungo tre direttive: fissare gli obiettivi, stabilire la governance e promuovere incentivi.

Proprio sul binomio governance/incentivi scatta la genialata. Affinché un sistema di soft law sia efficace, occorre che i paesi destinatari dei “suggerimenti” abbiano incentivi capaci di convicerli a trasformarli in leggi nazionali.

L’Internazionale dei banchieri comanda tramite la politica, non con o contro la politica.

Gli incentivi sono di due tipi: quelli indiretti, ossia derivanti dalla reazione del mercato al mancato recepimento di un “consiglio” degli esperti, e quello diretto, ossia la reazione dei partecipanti alla comunità internazionale se un paese non accetta le regole del gioco, comprese quelle non scritte. Il primo è un incentivo assai potente, specie in un mondo indebitato come il nostro. Sapere che le banche di un paese non applicano le regole di Basilea sui requisiti minimi di capitale perché il paese in questione non ha recepito gli indirizzi del Comitato, ad esempio, non può non avere un effetto diretto sul costo dei prestiti per queste banche e, indirettamente, sullo stato di salute del paese. Gli incentivi diretti sono più visibili e altrettanto eclatanti: l’esempio più eloquente è la decisione del FsF di classificare i centri offshore nel mondo.

Tutto questo, ovviamente, viene fatto nell’interesse della stabilità finanziaria. Quindi (come al solito) per il nostro bene. Peccato che serva il potere maieutico di una crisi per farcelo comprendere e apprezzare.

Volete un altro esempio?

Pochi giorni fa la Bri ha rilasciato il suo ultimo rapporto al G20 sull’implementazione a livello globale delle regole di Basilea III, il seguito di Basilea II. Vale la pena leggerlo perché dà la misura di quanto sia ormai diffusa l’Internazionale della regolazione e consente di intravedere in controluce il conflitto strisciante, esploso, specie in conseguenza della crisi, fra quest’ultima e gli stati nazionali.

E’ proprio l’ultima crisi scoppiata dal 2008 in poi a far da levatrice a Basilea III. Il pacchetto di ”suggerimenti” chiamato Basilea II, suo antecedente, fu definito nel 2004 e si basava su tre pilastri: la fissazione dei requisiti di capitale minimo per le banche, le regole per la supervisione e il set di regole per la disciplina di mercato. La release 2.5 di Basilea II arrivò nel luglio del 2009, nel bel mezzo della tempesta iniziata nel 2008, e si occupò di fissare le regole per la cartolarizzazione e l’esposizione del portafoglio di negoziazione.

Ma evidentemente non era sufficiente. Travolte dalla crisi, le banche (e quindi gli stati) sollecitarono il Comitato a elaborare un nuovo set di regole capaci di dare maggiore stabilità al sistema.

Arriviamo così al 2010. Il Comitato rilascia il set di Basilea III, che aumenta ancor di più il livello di capitale prudenziale richiesto alle banche e fissa nuove regole per la la gestione della liquidità globale.

Ovviamente, trattandosi di soft law, è necessario che tali regole siano recepite dagli Stati espressione dei partecipanti al Comitato, tanto per cominciare. Ma non è certo un problema. A novembre del 2011 i leader del G20 impegnano i rispettivi paesi a recepire Basilea 2.5 entro il 2011 e Basilea III entro il 2019. Tali propositi vengono riaffermati nel vertice del G20 di giugno 2012 di Los Cabos e, ancora una volta, nel vertice di Mosca del febbraio 2013 fra i ministri finanziari e i governatori centrali del G20.

Questo tanto per dare un’idea di quanto pesi la cosiddetta soft law.

Ad agosto 2013 risultava chele regole di Basilea II erano state implementate da 24 dei 27 paesi rappresentati nel Comitato di Basilea. Mancano solo Stati Uniti (guarda caso), Russia e Argentina. Le regole di Basilea 2.5 sono state implementate da 22 paesi su 27. Devono terminare il lavoro gli Stati Uniti (ancora una volta), Argentina, Indonesia, Messico e Russia. Mentre le regole di Basilea III sono pressoché operative in 11 paesi su 27.

E’ interessante notare che la Cina risulta aver implementato pienamente Basilea II e Basilea 2.5 e il primo pezzo di Basilea III. Si trova persino più avanti degli Usa, della Germania e della Francia, in questo processo. Si trova al livello del Giappone, del Canada e della Svizzera.

Ma è tanto pervasivo il potere di convincimento dell’Internazionale dei banchieri, che le sue regole vengono recepite anche dai paesi che non appartengono al club di Basilea.

Il rapporto della Bis riporta una rilevazione statistica, condotta stavolta dal FsF, su 100 giurisdizioni (ossia paesi) che non appartengono al Comitato di Basilea. I 74 che hanno risposto hanno fatto concludere che fra il 2012 e il 2013 “c’è stato un significativo progresso negli sforzi di adottare gli standard di capitale fissati da Basilea”. Ben 54 giurisdizioni hanno già adottato o stanno per adottare Basilea II, 16 Basilea 2.5 e 26 Basilea III.

L’Internazionale dei banchieri, insomma, viaggia con passo sostenuto verso il sol dell’avvenire.

Sembra proprio che il segno del nostro tempo sia, nel nostro interesse, affidarsi a una pattuglia di tecnici sconosciuti nei confronti dei quali nessuno, tantomeno i politici, ha la capacità critica e le conoscenze necessarie per confutarli o metterli in discussione. Ma forse questo è il prezzo che dobbiamo pagare per continuare a vivere come viviamo: costantemente al di sopra delle nostre possibilità.

A noi tutti è richiesto un atto di fede nei confronti di costoro, malgrado ciò implichi una silenziosa erosione del principio democratico. E’ il trionfo del sentimento religioso sul principio di razionalità.

Ma perché stupirsi? In fondo tutte le Internazionali, nella storia, hanno sempre avuto a che fare in qualche modo con la religione.

O forse era il contrario?

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