Una laurea alla Bocconi e un’esperienza al Fondo monetario internazionale non mettono al riparo dai pregiudizi più inveterati.
Ieri Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, commentando a caldo allo Speciale TG1 le elezioni tedesche, ha auspicato un accordo Cdu-Spd di grande coalizione per smussare gli eccessi rigoristi di Angela Merkel. È lo stesso accordo di grande coalizione che in Italia viene vissuto come innaturale dalla sinistra, ma non è questa la vera anomalia.
La vera anomalia è emersa quando Fassina ha cercato di zittire il suo interlocutore, giornalista del gruppo RTL che lo incalzava sulla situazione del debito italiano, accusandolo di farsi forte di una “superiorità antropologica in quanto tedesco”.
Un’offensiva allusione al decennio nazista che un po’ esaspera e un po’ fa sorridere, ma che sottende una costante sopravvalutazione del “pericolo tedesco”, degna di altre stagioni storiche. E dimostra come l’europeismo professato, giurato, studiato a tavolino come ideologia alla moda negli anni Novanta non serva a nulla se non basta a cacciare vecchi fantasmi, utili solo ai nuovi populismi che puntano a depotenziare e decostruire l’Europa.
L’antico riflesso condizionato di immaginare o sperare in un’Europa senza e contro la Germania, non è certo solo un problema della sinistra, ma è trasversale al populismo di Grillo, all’opportunismo elettorale del Pdl e al radicalismo di sinistra che sogna una nebulosa “altra Europa”.
Da ieri sarà più difficile coltivare queste illusioni. La destra professorale del rigorismo matematico-economico non ha sfondato (come forse speravano gli antitedeschi italiani), mentre è in espansione tanto il popolarismo tedesco quanto il socialismo moderato dell’SPD, entrambi uniti dall’idea-forza dell’Europa politica.