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Perché Obama fa bene a non farsi provocare da Putin. L’analisi di Romano

Restituito alla Russia il ruolo di protagonista del palcoscenico mondiale grazie all’iniziativa diplomatica nella crisi siriana, Vladimir Putin ha voluto rivolgersi al popolo statunitense.

Lo ha fatto con un articolo pubblicato proprio l’11 settembre sul New York Times in cui denuncia “la minaccia dell’uso unilaterale della forza che ferisce la legalità e la comunità internazionale”. Puntando il dito contro “la ragione profonda dell’approccio interventista Usa”: la filosofia dell’“eccezionalismo americano” richiamata da Barack Obama nel suo recente discorso alla nazione.

Per capire le implicazioni di un documento che ha provocato per lo più sdegno nei lettori e nei politici statunitensi, Formiche.net ha interpellato Sergio Romano (nella foto), storico, scrittore e diplomatico, ambasciatore a Mosca negli anni Ottanta e acuto conoscitore della mentalità e delle dinamiche di potere in Russia.

La critica radicale di Vladimir Putin verso l’eccezionalismo statunitense è fondata? 
Sì. La consapevolezza dell’unicità della nazione americana, della sua missione di faro universale di libertà, autogoverno ed emancipazione individuale, è tuttora radicata nei governanti e nell’opinione pubblica degli Stati Uniti. Ed è comprensibile visto il ritardo con cui si accorgono del loro declino internazionale. Con l’eccezione del presidente, convinto che Washington non può esercitare il ruolo giocato per decenni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Per questo motivo Barack Obama fa riferimento a un orizzonte insito nelle radici religiose e culturali della federazione.

La Casa Bianca accusa il leader russo di sorvolare sui veti che paralizzano le Nazioni Unite e sulle violazioni delle libertà perpetrate nel proprio Paese. 
La ritengo una ripicca verso un articolo che ha infastidito e imbarazzato il ceto politico americano. È una tendenza comune agli uffici di propaganda rinfacciare all’autore di una critica i propri vizi. Gli esponenti politici statunitensi non accettano le obiezioni avanzate da Putin in sé ma si limitano a un ping-pong politico e mediatico.

Il presidente russo assolve però il regime di Assad per l’uso dei gas chimici, che attribuisce ai ribelli mossi dalla volontà di provocare un intervento armato internazionale. E paventa l’esplosione incontrollata del terrorismo in caso di azione militare. 
Il fatto che Putin continui ad affermare la responsabilità degli insorti nel ricorso ai micidiali ordigni rappresenta il punto più fragile delle sue argomentazioni. È tuttavia legittimo il suo timore sul dilagare di fenomeni terroristici, visto che la Siria sta diventando un vivaio di movimenti integralisti. Una spirale comune ai conflitti mediorientali degli ultimi decenni, in cui a un tratto irrompono gruppi fanatici portatori di un’agenda estranea alle ragioni dei cittadini insorti contro un regime, una repressione brutale, un’aggressione esterna. Ricordo la guerra civile in Algeria, la Bosnia caratterizzata da forme di mercenariato ideologico di stampo islamista. E la Legione arabo-musulmana sorta in Afghanistan in opposizione all’invasione dell’Urss, appoggiata dagli Stati Uniti e alimentata dalle risorse dell’Arabia Saudita.

A cosa punta davvero Putin in Siria? Negli ultimi tempi sembra non ritenere inamovibile Assad… 
L’iniziativa promossa dal leader russo e dal ministro degli esteri Sergej Lavrov per convincere il governo di Damasco a consegnare il suo arsenale chimico agli ispettori internazionali ha un valore e un’utilità contingenti, finalizzati a impedire che gli Usa fossero trascinati nel meccanismo inarrestabile della punizione militare di Assad. E i primi a essergli grati sono proprio gli americani visto che li sta aiutando a uscire da un’impasse di cui erano divenuti prigionieri. Stallo avvalorato dalla richiesta di Obama al Congresso dell’autorizzazione per l’azione armata: via libera non obbligatorio che ha finito per rinviare l’assunzione di una grave responsabilità. Temo però che l’offensiva diplomatica russa non produrrà effetti tangibili, poiché non è semplice mettere un arsenale chimico sotto il controllo delle Nazioni Unite. È necessario realizzare un inventario e un’indagine capillare, impensabili in un Paese in piena guerra civile.

L’Amministrazione e la politica Usa hanno rivelato dilettantismo, oscillazione e inadeguatezza nel fronteggiare la crisi siriana?
Li reputo troppo intelligenti per non rendersi conto della pericolosità di un gesto militare incomprensibile. Gli Stati che intervengono con la forza in una guerra civile sanno chi favorire, mentre la Casa Bianca parlava di azioni limitate nel tempo e negli obiettivi, peraltro mai chiariti. Agire in un conflitto fratricida contro il regime di Assad equivale a sconvolgere gli equilibri sul terreno a favore dei ribelli. Che dal giorno dell’attacco Usa rifiuterebbero ogni trattativa allontanando uno sbocco politico della crisi. Evidentemente il movente che spingeva parte della politica Usa verso l’azione armata era lanciare un segnale forte a Teheran in vista di una sanzione del suo programma nucleare.

Il presidente russo può proporsi come riferimento privilegiato per i Brics e per gli Stati insofferenti verso la leadership nordamericana? 
Consiglierei di non dare eccessiva importanza all’articolo di Putin. Perché quel documento parla di un Paese desideroso di recuperare forza, tradizione, orgoglio dopo le umiliazioni subite per mano degli Usa. All’indomani del tramonto della Guerra fredda e della disintegrazione traumatica dell’impero sovietico, i russi hanno vissuto la sensazione che l’Occidente volesse approfittare della loro fragilità. È avvenuto nel corso delle guerre balcaniche quando Mosca, amica e protettrice della Serbia di Slobodan Milosevic, non rispose alle attese dell’alleato restando inerte di fronte all’intervento Nato contro il dittatore di Belgrado. Ed è accaduto con la guerra in Libia, promossa sulla base di una risoluzione Onu-Lega araba che chiedeva l’imposizione di una No fly zone contro Muhammar Gheddafi. Nutrendo fiducia sul precedente dell’Iraq per cui il sorvolo di aerei militari di Saddam Hussein veniva punito con l’abbattimento, la Russia approvò il documento. Ma il giorno seguente Francia e Regno Unito scatenarono bombardamenti massicci avallati dalle retrovie Usa. Putin si ritrovò nella condizione di ratificare un intervento che andava ben al di là del mandato originario. Pensa non abbia provato una rabbia cocente?

Gli Stati Uniti sono condannati ad accettare la rivincita della Russia dopo anni di protagonismo? 
La transizione degli Usa da superpotenza egemone a potenza con minore autorevolezza e libertà di manovra sarà molto lenta sul piano culturale. Obama, già accusato dai repubblicani di essere accomodante con Mosca, appare consapevole che non è possibile tornare agli anni Novanta. È normale visto che il Paese ha perduto due guerre, non solo in Iraq con un intervento costato un trilione di dollari e migliaia di vite, ma anche in Afghanistan. E ha rischiato di restare impelagato nel pantano di una battaglia senza fine.

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